E se ci fossi stata io su quell’aereo? Avrei lasciato tutto ‘in ordine’?

  • Postato il 17 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Sono tornata dall’India il giorno prima che il cielo si aprisse su un volo partito da Ahmedabad e mai arrivato a Londra. Una tragedia in volo. Un superstite.

In quelle stesse settimane, anch’io ho volato spesso. Più volte, più rotte. Alcune con Air India. Quando ho letto la notizia, il cuore ha fatto un sobbalzo. Poteva succedere a me. Poteva succedere a chiunque. È uno di quei pensieri che sfiorano la pelle e poi vanno in profondità. Che non servono per spaventare, ma per aprire. Aprire un varco nel quotidiano, nel rimosso, nel non detto.

In quel momento, ho sentito affiorare una domanda semplice e spietata: se fossi stata io su quell’aereo, avrei lasciato tutto in ordine? Non parlo solo di carte e documenti. Parlo della mia vita. Delle parole dette e di quelle rimaste dentro. Dei legami, delle volontà, delle scelte che ci riguardano ma che, in caso di morte improvvisa, toccano profondamente anche chi resta. È una domanda che chi lavora nell’ambito della death education dovrebbe porsi più spesso in prima persona, prima ancora che proporla agli altri.

Sapevo, mentre lo pensavo, che non tutto era in ordine. Che alcune cose sono state dette, altre solo pensate. Che qualche foglio è firmato, ma non tutto è aggiornato. Che ci sono ancora desideri da raccontare, oggetti da affidare, parole da liberare. E ho sentito con chiarezza che non è troppo tardi. Ma potrebbe esserlo, da un momento all’altro.

La morte improvvisa ci mette davanti a una verità che spesso evitiamo: non sempre si muore lentamente. Non sempre c’è tempo per salutare, per spiegare, per decidere.

Per questo vale la pena chiedersi: ho preparato il mio testamento? Ho scritto le mie volontà? Ho indicato una persona di fiducia per rappresentarmi se non fossi più in grado di decidere? Sono parole che possono suonare scomode, ma che invece sono espressione di cura. Cura verso noi stessi, ma soprattutto verso chi amiamo.

La scrittura delle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento), ad esempio, è uno strumento potente. Permette di indicare in anticipo le terapie che vogliamo o non vogliamo ricevere in caso di malattia irreversibile. Ma quanti di noi le conoscono davvero? Quanti ne hanno parlato in famiglia, tra amici, con il proprio medico?

Anche senza arrivare a documenti ufficiali, ci sono tanti modi per lasciare qualcosa che aiuti chi resta: una lettera, un video, un piccolo diario, un messaggio custodito. Sono gesti che alleggeriscono, che orientano, che tengono viva la relazione anche oltre la vita. Sono forme di “testamento affettivo” che chiunque può scegliere di scrivere, senza bisogno di un notaio.

E poi ci sono le parole. Quelle che tratteniamo per orgoglio, per timidezza o paura. Quelle che, una volta dette, fanno la differenza. Un “ti voglio bene” pronunciato oggi vale più di cento rimpianti domani.

Non si tratta di essere ossessionati dalla morte, ma di vivere in modo più consapevole. Di accettare che la fine esiste, e che possiamo scegliere come accompagnarla, con amore e dignità.

Il giorno prima, sono tornata. Nessun allarme, nessuna premonizione. Ma dopo, tutto ha assunto nuovi significati. Perché anche ciò che non viviamo ci cambia. Tra queste, c’è la possibilità di lasciare il mondo un po’ più in ordine. Per noi. Per chi resta. Per continuare, in qualche modo, a prenderci cura.

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Il Fatto Quotidiano

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