Ferdinand Porsche, il genio della meccanica senza laurea
- Postato il 2 settembre 2025
- Cultura
- Di Agi.it
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Ferdinand Porsche, il genio della meccanica senza laurea
AGI - Nato austriaco suddito dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo, divenne automaticamente cittadino cecoslovacco nel 1918 e poi scelse il Terzo Reich, ma il suo nome è entrato con tutti gli onori dalla porta principale della storia dell’automobilismo. Ferdinand Porsche vide la luce 150 anni fa, il 3 settembre 1875, a Maffersdorf, oggi Vratislavice nad Nisou nel nord della Repubblica Ceca, nei Sudeti all’epoca con forte e radicata presenza tedesca. Trasferitosi a Vienna subito dopo gli studi professionali, comprese immediatamente che l’automobile avrebbe conosciuto uno straordinario sviluppo e vi si dedicò con entusiasmo, nonostante non avesse alcun titolo universitario specialistico per fare il progettista.
Un esordio da primato all’Esposizione universale di Parigi
Quel giovane ha una vocazione e un’abilità che non sfuggono alla ditta Lohner per la quale lavora. Nel 1900 all’Expo Universale di Parigi il suo nome compare accanto a quello di Lohner sul modello Semper Vivus, un’auto ibrida con motore termico Daimler e uno elettrico su ciascuna ruota, primo esempio al mondo di vettura a trazione integrale. Sei anni dopo lasciava Lohner per essere assunto dall’Austro-Daimler con l’importante incarico di capo-progettista. Per essere uno che si era formato nell’officina meccanica del padre e che aveva solo un diploma tecnico, era qualcosa di straordinario.
Carriera in ascesa tra Austria e Germania
La laurea in ingegneria arriverà nel 1916, ma solo perché l’Università gliene conferirà una honoris causa. La stessa cosa accadrà con un altro grande costruttore, che come Porsche fa parte dell’Olimpo dell’automobilismo: Enzo Ferrari. In quello stesso 1916 era stato nominato direttore generale della ditta. Nel decennio alle dipendenze dell’Austro Daimler le sue vetture avevano riscosso plausi e risultati sportivi di rilievo. Ma il mondo è in guerra, e la sua attenzione viene dirottata anche sulla produzione bellica per aeroplani e trattori. La fine del primo conflitto mondiale provoca la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico.
La sua città natale fa adesso parte della Repubblica Cecoslovacca, in cui la tradizione automobilistica è radicata e fiorente, con marchi come Škoda, Tatra, Praga. Ma Porsche guarda alla Repubblica di Weimar. Nel 1923 viene chiamato a Stoccarda dalla Daimler che gli offre il posto di direttore tecnico e una poltrona nel consiglio di amministrazione. Nello stesso tempo arriva la seconda laurea ad honorem conferita dalla Facoltà di ingegneria di Stoccarda, mentre si sta dedicando allo sviluppo del turbocompressore della Mercedes.
La prima rivoluzionaria vettura da corsa per Auto Union
Ritorna in Austria, nel 1929, per una breve parentesi di due anni al vertice della Steyr, per poi rientrare a Stoccarda dove ha la forza economica e il bagaglio tecnologico per fondare uno studio di progettazione che porta il suo nome, introdotto dai titoli di dottore e ingegnere. È ancora lontano il periodo del marchio, ma le premesse ci sono tutte. Nel novembre 1933 viene testata l’Auto Union P-Wagen e la “P” sta proprio per Porsche. Una vettura rivoluzionaria destinata alle corse, carrozzeria in lega d’alluminio pesante solo 45 kg, potente, aerodinamica. E vincente su tutti i principali circuiti. Quando i dirigenti della neonata Auto Union gli avevano chiesto se fosse interessato a progettare per loro un’auto da corsa, lui li sorprese rispondendo «Ce l’ho già in tasca». Era il Progetto Porsche 22.
Al servizio di Hitler per il progetto dell’"auto del popolo"
Il 1933 è anche l’anno dell’avvento di Adolf Hitler al potere. Anche lui ha un progetto in testa, che è allo stesso tempo politico, tecnologico ed economico: una vettura del popolo, una Volkswagen, che costi poco e che tutti si possano permettere. La filosofia è la stessa che aveva animato Benito Mussolini nel chiedere nel 1930 al senatore Giovanni Agnelli che la Fiat si dedicasse all’«urgente necessità» di motorizzare gli italiani producendo una piccola vettura economica, che sarebbe stata la 500 Topolino. Porsche stette fuori di un marco dal limite dei 1000 fissato da Hitler e nel 1938 scoprì il velo dal KdF Maggiolino, destinato nel secondo dopoguerra a essere uno dei modelli più popolari e più diffusi al mondo, prodotto fino al 2003.
Nell’immediatezza del secondo conflitto mondiale, praticamente nessun tedesco potrà acquistare quell’auto rivoluzionaria, perché la produzione sarà subito convertita a usi militari con i modelli Kübelwagen e l’anfibia Schwimmwagen. Intanto Porsche, sullo stesso telaio, aveva realizzato il primo modello a suo nome, la Porsche Type 64. Alle esigenze della Wehrmacht contribuì anche con la progettazione della torretta del gigante su cingoli Panzer VI “Tigre reale”.
L’esperienza in Italia prima del decollo del marchio
A guerra ormai finita, alla fine del 1945, Porsche cadde in mani francesi, per i quali quell’ingegnere onorario rappresentava un impressionante patrimonio di conoscenze tecniche e meccaniche che potevano tornare utili alla rinascita industriale della République. Dopo venti mesi di prigione per collaborazionismo, all’improvviso, qualcuno si offrì di pagare la cauzione astronomica di un milione di franchi per farlo liberare. Quel qualcuno era un italiano, Piero Dusio, che il I luglio 1946 aveva fondato a Torino il marchio Cisitalia.
In questo modo Dusio si assicurò la riconoscenza del figlio, Ferry Porsche, il quale portò con sé in Italia un ingegnere che era stato uno dei principali collaboratori del suo studio, Rudolf Hruska, che in seguito firmerà automobili di successo come la Giulietta, l’Alfasud, e in condominio con Dante Giacosa la Fiat 850. Porsche realizzò con Hruska la Cisitalia 360 e poi nel 1948 tornò a Stoccarda.
La Porsche metteva in linea di produzione il modello 356, derivato dalla Volkswagen, che diventerà la prima di una serie straordinaria di icone. Ferdinand Porsche morirà per infarto il 30 gennaio 1951. In quello stesso anno la Porsche si sarebbe imposta per la prima volta alla 24 ore di Le Mans. Tutta la storia del marchio, su strada e su pista, era gloria e successi. E una sola ombra.
La “macchia” sul Maggiolino per la violazione di brevetto
Una macchia – non politica come la compromissione col nazismo, ma professionale – c’era, ed è rimasta nascosta per molto tempo. Il disegno della Volkswagen Maggiolino ricalcava abbastanza fedelmente un modello preesistente, la Type 97 prodotta dalla cecoslovacca Tatra nel 1936. Le linee sono praticamente identiche e già nell’immediato Tatra aveva denunciato Porsche per violazione del brevetto.
La causa era fondata ma il momento storico risultò del tutto sbagliato: la Cecoslovacchia era stata prima smembrata da Hitler (col Patto di Monaco del settembre 1938 che gli aveva consentito di annettere i Sudeti e con l’invasione di marzo 1939) e poi trasformata in Protettorato di Boemia e Moravia, quindi dell’azione legale non si parlò più, anche perché i tedeschi fecero sospendere subito, nel 1939, la produzione della Tatra 97.
Dopo la fine della guerra, quando dai Sudeti erano stati espulsi tre milioni di tedeschi con i Decreti Beneš, nel 1965 Tatra, attraverso il governo comunista che aveva nazionalizzato l’industria, tornò alla carica. La Volkswagen mise sul piatto un milione di marchi e limitando i danni patrimoniali chiuse così l’imbarazzante vicenda che l’avrebbe assai probabilmente vista soccombere in tribunale con un danno d’immagine incalcolabile.
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