Festa dell’Europa, all’Ue oggi serve meno retorica e più coraggio politico: io ci credo ancora

  • Postato il 9 maggio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Oggi la Festa dell’Europa compie 40 anni. Era il 1985 quando il Consiglio Europeo, riunito a fine giugno nel castello Sforzesco di Milano, dispose di fissare questa ricorrenza ogni 9 maggio, in memoria di quel giorno del 1950 in cui il ministro degli esteri francese Robert Schuman propose al Quai d’Orsay di Parigi di creare la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), primo passo verso la nascita dell’odierna Ue.

In questo giorno quindi, da quarant’anni, si celebra il percorso di integrazione e cooperazione tra Stati ed entità territoriali che per secoli sono stati in guerra tra loro. Questo ci sembra qualcosa di scontato oggi, ma non lo è affatto. La storia dell’Europa Unita è conseguenza del fallimento dell’Europa delle Nazioni, sfociata in nazionalismi beceri che hanno devastato il continente e, con esso, buona parte del mondo.

Molte delle odierne nazioni europee vanno in realtà considerate come una tappa storica intermedia, spesso frutto di una integrazione più o meno forzata sotto la stessa bandiera, di realtà territoriali, linguistiche e culturali diverse. L’Italia ad esempio, quando divenne nazionalista e fascista, esisteva da soli 60 anni. Il Belgio ancora oggi è una nazione composta da gruppi con lingue e culture diverse che non si capiscono tra loro. In Spagna è salvaguardato un bilinguismo regionale e così via sono tantissimi gli esempi che si possono fare per descrivere le realtà diverse che si presentano negli Stati membri dell’Ue. Entità diverse unite da una circostanza storica, sono tutte realtà europee che hanno contribuito a forgiare la storia d’Europa.

Fatta questa premessa, adesso c’è da chiedersi come stanno procedendo le cose e a che punto ci troviamo nel nostro (lungo) processo di integrazione iniziato con la dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950.

La sensazione è che qualcosa sembra essersi inceppato: i sogni di un’Europa forte, unita e protagonista nello scacchiere globale hanno lasciato in ampi spazi della società il passo alla paura del vicino, alle anacronistiche teorie conservative che, unite alla soggezione verso il nostro partner internazionale più forte, gli Stati Uniti d’America, sembrano aver gettato l’Europa in un vortice senza via d’uscita: troppa paura per andare avanti nell’integrazione e provare a sfidare i colossi globali di oggi ed essere ancora protagonisti nel mondo come Europa federale, e troppa poca forza per tornare indietro, anche perché al netto dello spicciolo populismo nazionalista, nessuno tra i sedicenti cultori della Nazione ha la benché minima idea di come poter competere o restare a galla, pieni di debiti e privi di risorse essenziali, in uno scenario globale interconnesso e dominato da entità territoriali enormi che fino a qualche tempo fa erano colonie o paesi in via di sviluppo.

Tra la destra che più che avanzare tiene tutto bloccato e una sinistra incapace di instaurare un rapporto sentimentale con gli elettori e di proporre modelli economici diversi dal capitalismo sfrenato, c’è un rischio concreto che la giornata dell’Europa si trasformi nell’ennesima parata di retorica istituzionale, mentre le vere sfide restano congelate sotto il peso dei compromessi, dei rinvii e delle pressioni delle grandi lobby industriali, che sono spesso i veri legislatori sia a livello nazionale che europeo.

L’Unione Europea oggi appare affaticata, sotto attacco da forze interne ed esterne che vogliono ridurla a un mercato e svuotarla di visione politica. Così la Commissione in carica si adatta alle richieste di chi banchetta su questo continente annacquando principi di trasparenza, affossando il Green Deal, riducendo le strategie sulla biodiversità, rallentando la necessaria transizione ecologica e tentennando su quelle iniziative necessarie per dare risposte forti in tempo di crisi. Insomma, chi dovrebbe guidare la nave attraverso acque agitate e verso nuove prospettive si accontenta di restare a galla, spesso grazie al salvagente lanciato da qualcuno che se lo fa pagare a peso d’oro.

Un’Europa forte e unita sarebbe in grado di emanciparsi dalla malsana dipendenza digitale, geopolitica e militare americana, e proporre soluzioni interne – in autonomia e globali – con peso. Il genocidio in atto a Gaza, a due passi di distanza dalla nostra Europa, è un esempio concreto di subalternità globale dove dovremmo essere in grado di intervenire con forza e decisione. Un’Europa disgregata fa il gioco degli attori esterni, d’altronde “divide et impera” è un principio che dai tempi dell’Impero romano ad oggi non ha mai cessato di essere applicato.

Intanto, il nuovo Patto di Stabilità torna a strangolare gli investimenti pubblici. Il Green Deal diventa greenwashing. E la politica migratoria si trasforma in una esternalizzazione della gestione dei diritti fondamentali a Paesi terzi in cambio di silenzi, repressione e ritorni forzati.

Eppure, nonostante tutto, io continuo a credere nell’Europa. Non quella degli slogan, ma quella dei popoli, dei diritti, dell’ambiente, della giustizia sociale. Perché l’Ue, con tutti i suoi limiti, resta l’unico spazio politico al mondo dove possiamo costruire regole comuni, avanzare nella protezione del clima, difendere le libertà fondamentali, contrastare i giganti industriali e garantire un minimo di dignità anche contro i governi più reazionari. Peraltro l’Ue è anch’essa un passo intermedio regolamentare in un mondo che si presenta oggi sempre più globalizzato e dove le regole e le barriere sono inversamente proporzionali al taglio delle distanze, commerciali e relazionali.

La Festa dell’Europa dovrebbe servire proprio a questo: a rilanciare un progetto che oggi è fragile, ma ancora possibile. E per quanto mi riguarda, indispensabile. Un’Europa federale, basata sulla produzione interna e sostenibile, equa e trasparente. Un’Europa che metta al centro le persone e il pianeta, non solo i vincoli di bilancio o gli interessi di breve periodo di qualche grosso gruppo industriale, che spesso non è neanche europeo o in larga parte non opera in Europa e fa danni in giro per il pianeta.

Si tratta di un work in progress ma anche di una necessità egoistica per tutti gli europei, e per questo bisogna assolutamente continuare a credere e lavorare sodo per un’Europa che sappia essere allo stesso tempo influente ed esemplare nello scenario globale.

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