Giovani africani in rivolta contro i regimi mascherati da democrazie in Tanzania e Camerun

  • Postato il 4 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Camerun e Tanzania la scorsa settimana sono tornati alle urne, ma più che un momento di scelta, le elezioni sono sembrate una pura formalità. Due storie che si intrecciano attorno a un copione già scritto: presidenti che restano al potere, opposizioni messe all’angolo e un popolo sempre più disilluso davanti a una democrazia di facciata. I giovani in Africa sono sì maggioranza assoluta ma, per contare, devono sfidare il rischio della repressione. I giovani affollano città e campus, ma pesano poco nelle arene istituzionali. È una frattura che si vede nei cortei, nei social e nelle urne.

Le immagini che sono arrivate in questi giorni dalla Tanzania delineano un quadro drammatico: strade deserte, barricate in fiamme e scontri che si estendono ben oltre la capitale commerciale, Dar es Salaam. Le tensioni si concentrano intorno ai seggi elettorali, teatro di assalti e devastazioni. Molti dei manifestanti sono giovanissimi. Elezioni a dir poco contestate, che come previsto hanno eletto presidente Samia Suluhu Hassan. Le stesse immagini di protesta sono arrivate via social dal Camerun non appena Paul Biya è stato eletto alla presidenza per l’ottava volta consecutiva. Novantadue anni, al potere dal 1982, è oggi il capo di Stato più anziano del mondo ancora in carica. Alla vigilia del voto, nessuno dubitava del risultato, tra accuse di manipolazione elettorale e il silenzio assordante di un’opposizione ormai stremata.

In Tanzania, tra repressione in strada, blocchi di rete e candidati credibili stoppati lo scenario non è molto diverso. Samia Suluhu Hassan, salita al potere nel 2021 dopo la morte di John Magufuli, si è presentata alle elezioni praticamente senza sfidanti reali. Aveva promesso un’era nuova, fatta di aperture democratiche e trasparenza. Ma col passare dei mesi le speranze si sono affievolite. Diversi leader dell’opposizione sono stati arrestati, i media sottoposti a rigidi controlli.

In Camerun l’età media è di 18 anni, in Tanzania poco più di 17 anni. Significa che chi decide del futuro di questi paesi appartiene a un’epoca che per molti è quasi preistoria. In questi due paesi (ma non solo), le piazze si sono riempite di voci arrabbiate e cartelli alzati contro presidenti ormai riconfermati senza sorprese. Migliaia di giovani sono scesi in strada per dire basta a una politica che non cambia mai, sulla scia di quanto accaduto in Kenya l’anno scorso e, più di recente, in Madagascar, dove la generazione Z ha mostrato di saper rompere gli schemi e influenzare davvero gli equilibri di potere.

Da Nairobi ad Antananarivo, e ora fino a Dar es Salaam e Yaoundé, il messaggio si fa sempre più netto: quello di una gioventù che non si accontenta più del voto simbolico, ma pretende di contare, di scegliere, di essere ascoltata. Una generazione decisa a farsi protagonista della trasformazione da una democrazia formale a una democrazia sostanziale. Le democrazie “sorvegliate” moltiplicano procedure e linguaggi, ma svuotano il senso della scelta.

Non è detto che la Gen Z africana sogni di importare i nostri modelli di democrazia, né che guardi all’Europa o alla Cina come punti di riferimento. Ma una cosa è certa: non ha più intenzione di restare spettatrice di elezioni che somigliano a una messinscena. La loro ribellione non nasce dall’imitazione dell’Occidente, ma dal rifiuto di un sistema di “democrazie sorvegliate” che continua a negare il cambiamento.

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Il Fatto Quotidiano

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