Il bonus psicologo può essere sufficiente per affrontare un disagio mentale così diffuso?
- Postato il 18 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Paola Medde
Il disagio psicologico è in crescita: il 40% delle ragazze della Generazione Z (nate tra metà anni ’90 e il 2010), si sente spesso depressa, e oltre il 54% dei giovani presenta disturbi emotivi. Inoltre, un’ampia fascia di popolazione convive con patologie croniche (circa 24 milioni), o disabilità (circa 3 milioni), condizioni che impattano fortemente sul benessere psicologico del malato ma anche di chi se ne prende cura: i caregivers, spesso familiari. A fronte di un aumento del 10% delle richieste d’aiuto psicologico in soli cinque anni, il Bonus Psicologo può essere sufficiente per affrontare un malessere così diffuso e profondo?
I dati ci dicono di no. Nel 2024, meno dell’1% delle oltre 400mila domande è stata accolta; chi è rimasto fuori ha trovato liste d’attesa infinite, servizi pubblici carenti o costi proibitivi nel privato tanto da rinunciare a curarsi. Inoltre, il bonus non sembra pensato per sostenere chi ha più bisogno. I criteri di accesso Isee e la rapidità nella presentazione della domanda fanno sì che l’assegnazione del contributo segua l’ordine di arrivo delle richieste, con priorità ai redditi più bassi fino all’esaurimento dei fondi. Nessun riferimento alla diagnosi, all’età, all’urgenza o complessità del bisogno. Parliamo di sanità o di lotteria? Sarebbe come decidere chi curare al Pronto Soccorso in base all’ordine di arrivo, e non al triage.
Fare scelte in sanità, soprattutto con risorse limitate, non è mai semplice, perché significa inevitabilmente lasciare fuori qualcuno — o qualcosa. Ed è proprio nei momenti in cui bisogna decidere chi e cosa includere o come agire diventa essenziale chiarire le finalità delle nostre azioni.
Il disagio mentale è un tema complesso, per la molteplicità delle cause, la vulnerabilità di chi ne è colpito, la sofferenza che comporta e, spesso, lo stigma che lo accompagna. Per capire quali azioni intraprendere, serve chiarezza: cosa significa davvero occuparsi di disagio mentale? Qual è lo scopo che vogliamo raggiungere? La scopistica, disciplina psicologica che analizza il comportamento umano in base agli scopi che lo guidano, può aiutarci a chiarire le intenzioni. Vogliamo ridurre il disagio? Ampliare l’accesso alla terapia? O forse inviare un segnale politico?
Gli obiettivi cambiano a seconda degli attori coinvolti: decisori politici, cittadini, professionisti della salute, ciascuno con una prospettiva diversa del problema. Se lo scopo è ridurre il disagio psicologico, servono interventi strutturali e integrati. Se invece lo scopo è “intervenire dove si può”, o dare un segnale di una politica che attenziona il fenomeno, allora misure temporanee, finanziate in alcuni periodi e con fondi limitati, sono coerenti con la logica del “chi prima arriva meglio alloggia”.
Ma come psicologi, sappiamo che uno Stato che vuole davvero garantire il diritto alla salute, come previsto dalla Costituzione, deve esserci concretamente. Serve una direzione chiara, capace di intercettare il disagio nei luoghi in cui nasce, prima che diventi emergenza. E nelle decisioni di scelte operative, serve la costruzione di scopi condivisi, attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori, specialisti compresi.
Nel film Ecce Bombo, Michele Apicella si chiedeva: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Una battuta che oggi suona come una metafora perfetta: non basta “esserci”. Serve esserci davvero.
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