Il delitto di non voler immaginare un futuro 

  • Postato il 19 maggio 2025
  • Di Panorama
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Lasciate ogni speranza o voi che entrate (nell’età dei brufoli). Secondo una ricerca realizzata da Ipsos per l’Istituto Giuseppe Toniolo, infatti, più della metà dei giovani non spera più. Non spera nella vita, nell’oggi e, soprattutto, nel domani. Stop. Basta. Non spera. Non spera nulla. Non spera nemmeno un po’. Non spera di poter cambiare il mondo. Non spera di poter stare meglio. Non spera di guadagnare. Non spera di fare carriera. Non spera di diventare star. Non spera di salvare il prossimo. Non spera di fare la rivoluzione. Non spera di inventare una moda. Non spera di diventare uno scienziato. Non spera di inventare un farmaco che cura i tumori o un motore che funziona a sorrisi. Non spera in un’idea. Non spera in Dio. Non spera negli altri. Non spera in sé stesso. Non spera in nulla. Non spera  nemmeno che domani esca il sole, perché se esce il sole arriva la siccità. E non spera che piova, altrimenti arriva l’alluvione. C’erano una volta i giovani di «belle speranze». Adesso, manco brutte le hanno.

Il dato della ricerca è davvero scioccante: la maggior parte dei giovani fra i 18 e i 34 anni, cioè coloro che dovrebbero costruire il futuro, non crede nel futuro.  Sono il 52,4 per cento nel Nord-ovest dell’Italia, il 53,8 per cento nel Sud e nelle Isole, il 55 per cento nel Centro e addirittura il 56 per cento nel Nord-est, cioè in una delle zone più ricche del Paese. Ciò dimostra che quello che manca ai ragazzi non sono tanto lavoro, casa o futuro: mancano le prospettive. Mancano i sogni.  Manca la fiducia che avevano le generazioni precedenti in un futuro diverso, e di provare a costruirlo. Magari sbattendo la testa. Magari  imboccando strade sbagliate e pericolose. Ma sempre sospinti dall’entusiasmo. Non schiacciati, come oggi, dal peso della rassegnazione.Si diceva: la speranza è l’ultima a morire. Evidentemente non è così: la speranza infatti è morta per prima in quelli che dovrebbero usarla come bandiera, cioè per l’appunto gli esponenti delle nuove generazioni.  Un fenomeno che, purtroppo,  è esploso nell’ultimo decennio. Era il 2017, infatti, quando il Wall Street Journal pubblicò un articolo per segnalare la diffusione di una nuova e bizzarra fobia tra i giovani: la «fobia del campanello». Sosteneva il quotidiano che il suono improvvisato del citofono, non  anticipato da un messaggio o un avviso su whatsapp, fosse una dura prova psicologica per i ragazzi nati nel nuovo millennio, figli dell’era ipertecnologica. Un primo segnale di quel dilagare dell’ansia che poi è stata la cifra dei dieci anni successivi.

Nel 2019 due studiosi, Kate Pickett e Richard Wilkinson, usarono nel loro lavoro L’equilibrio dell’anima l’espressione «epidemia dell’ansia». Una formula profetica, come ha ricordato di recente Valerio Benedetti sulla Verità: pochi mesi dopo infatti è scoppiata la pandemia, i cui effetti ansiogeni sono stati accresciuti in Italia da una gestione piena di Speranza sì, ma solo con la maiuscola. Lockdown prolungati, isolamento sociale, chiusura di ogni attività ludica e ricreativa hanno generato effetti devastanti sui nervi di chi si è trovato ad affrontare tutto ciò negli anni più delicati della vita, cioè quelli dell’adolescenza. Come se non bastasse, finita l’ansia da Covid, s’è pensato bene di far scoppiare l’ansia da cataclisma climatico, anche detta eco-ansia, per l’imminente apocalisse ambientale, insieme con  un po’ di sana ansia da guerra nucleare,  grazie a  schiere di combattenti catodici a mezzo talk show. 

Pensateci: come si chiama l’unico movimento giovanile che ha avuto un po’ di visibilità negli ultimi tempi? «Ultima generazione». Già nella scelta del nome c’è l’indice della resa: non ci si batte per cambiare il mondo, non si fa Lotta Continua, non si sogna il Potere Operaio, non s’insegue la Pantera, come accaduto in passato. No: si dichiara Ultima generazione. Ci si batte sull’orlo dell’estinzione. È la prima volta forse, nella storia, che ci troviamo di fronte a una generazione che si sente perduta ancora prima di cominciare a sognare. Che anche quando si ribella lo fa sull’onda della catastrofe e non della speranza.

È la società dell’ansia, come il filosofo Vincenzo Costa. È la generazione ansiosa, come scrive lo psicologo Jonathan Haidt. Ma forse bisognerebbe smettere di commiserare questi ragazzi con il poverinismo d’ordinanza: poverini, il Covid. Poverini, i social. Poverini, l’ambiente. Poverini un corno: i nostri nonni  riuscirono a sognare un mondo migliore sulle macerie della Seconda guerra mondiale. Ci hanno insegnato che si può perdere tutto, ma non la voglia di credere nel futuro. Perciò se il 56 per cento dei ragazzi risponde che, invece, nel futuro non crede più, a me viene voglia prenderli a pedate nel sedere. E magari qualcuno è d’accordo con me. Io non perdo la speranza. n

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Panorama

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