Il pubblico non è “di nessuno”, ma di tutti: la soluzione non può essere quella di abbandonarlo al suo destino
- Postato il 15 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Claudio Carli
In un’epoca in cui la sfiducia nelle istituzioni sembra essere diventata il sentimento dominante, è urgente riscoprire il significato autentico di “pubblico” e ridefinire il rapporto tra Stato, cittadini e privati. La Nazione, nella sua accezione più nobile, non è un’entità astratta, né tantomeno un semplice contenitore di interessi individuali: è una comunità di destino, un patto sociale in cui il bene comune prevale sulle convenienze di parte. Ed è proprio da questa convinzione che nasce la necessità di un cambio di paradigma radicale.
Il pubblico non è “di nessuno”, come spesso si sente dire con rassegnazione, ma è di tutti. E, come tale, tutti hanno il dovere di prendersene cura, contribuendo al suo funzionamento con le risorse e le competenze di cui dispongono. È un principio che dovrebbe essere scolpito nella coscienza civile di ogni cittadino: il patrimonio pubblico – che si tratti di sanità, istruzione, infrastrutture o servizi essenziali – è la base su cui si fonda la coesione sociale e il progresso collettivo.
Tuttavia, la realtà quotidiana ci restituisce spesso un’immagine distorta: quella di uno Stato percepito come un’entità distante, inefficiente, talvolta ostile, in cui il privato – sia esso cittadino o impresa – si sente legittimato a “prendere” senza sentire il dovere di “dare”. È una visione miope, che alimenta il circolo vizioso della disaffezione e dell’inefficienza. Chi amministra lo Stato non dovrebbe essere un “privato” travestito da pubblico, mosso da interessi personali nei settori che è chiamato a gestire. Al contrario, l’amministratore pubblico dovrebbe essere il garante dell’equilibrio tra i diversi attori della società, colui che assicura che tutti – cittadini, imprese, associazioni – partecipino attivamente al buon funzionamento della cosa pubblica.
Solo quando questo equilibrio è raggiunto, solo quando il pubblico funziona in modo efficiente e trasparente, allora il privato può – legittimamente – arricchirsi per conto proprio, beneficiando di un contesto favorevole e di regole certe. In altre parole: il benessere individuale deve essere la conseguenza, non la causa, del benessere collettivo.
Per invertire la rotta serve coraggio. Serve la volontà di superare rendite di posizione, corporativismi e logiche di corto respiro. Serve, soprattutto, una nuova assunzione di responsabilità da parte del privato, chiamato a farsi carico – insieme al pubblico – degli oneri derivanti dalle inefficienze del sistema.
Questo non significa, ovviamente, deresponsabilizzare lo Stato o giustificare la mediocrità amministrativa. Al contrario: significa riconoscere che la qualità dei servizi pubblici dipende anche dall’impegno e dalla partecipazione di tutti gli attori sociali. Se il privato viene coinvolto non solo nei profitti, ma anche nelle difficoltà e nelle sfide del pubblico, allora diventerà suo interesse primario che il sistema funzioni. Solo così si potrà innescare un circolo virtuoso in cui la collaborazione sostituisca la contrapposizione, e il bene comune torni al centro dell’agenda nazionale.
Prendiamo, ad esempio, il tema della sanità pubblica, già affrontato in un mio precedente post. Le lunghe liste d’attesa, la carenza di personale, le strutture inadeguate sono il sintomo di un sistema che non funziona più come dovrebbe. Eppure, la soluzione non può essere quella di abbandonare il pubblico al suo destino, lasciando che il privato ne raccolga i frutti senza assumersi alcuna responsabilità. Al contrario, occorre creare meccanismi che incentivino il privato a investire nella qualità del servizio pubblico, a collaborare nella gestione delle risorse, a condividere rischi e benefici. Solo così il pubblico potrà tornare a essere un motore di equità e sviluppo, e il privato potrà prosperare in un contesto sano e competitivo.
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