Il referendum è stato davvero una sconfitta devastante? La sinistra riparta dal lavoro

  • Postato il 11 giugno 2025
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di Matteo Jessoula*

Tutto come previsto. L’affluenza alle urne ha superato di poco il 30% e il quorum non è stato raggiunto. Le leggi sul lavoro (e quella sulla cittadinanza) rimangono intatte, mentre il governo sbeffeggia l’opposizione per la “devastante sconfitta”, arringando “il campo largo è morto”. La minoranza moderata e riformista interna al Pd giubila tagliando corto: il paese non vuole rese dei conti col passato – ergo, il paese non è contro il Jobs Act, la rimozione dell’articolo 18 e l’irresponsabilità nei subappalti – ma vuole guardare al futuro, con serietà.

Ma è davvero così? Si è trattato di una sconfitta devastante e il messaggio politico che esce delle urne è quello rilanciato da Picierno e dai partiti di governo? Per rispondere non serve stravolgere i dati, è sufficiente leggerli collocandoli su un orizzonte temporale significativo.

Il primo punto riguarda la “sconfitta”. Qualsiasi osservatore con qualche conoscenza della storia referendaria italiana – o che avesse anche soltanto intercettato un sondaggio pre-elettorale – sapeva che il quorum non sarebbe stato raggiunto. Senza tornare necessariamente agli anni Settanta, smaltita la stagione referendaria 1990-1993, dalla fine della Prima Repubblica si sono tenuti 29 referendum abrogativi con un’affluenza media pari al 31%; se consideriamo gli ultimi 10 anni il dato scende addirittura al 22%. Di fatto, nel quadro di un astensionismo strutturale attorno al 40-50%, in tutti i referendum in cui una parte politica gioca la carta del “non voto”, il quorum è semplicemente irraggiungibile. Nessuna sorpresa, dunque.

Il rischio vero, per la Sinistra politica – diversamente dalla Cgil, promotrice dei referendum in coerenza con la sua opposizione (invero debole e poco organizzata) al Jobs Act dieci anni fa – era che un’affluenza troppo bassa potesse confermare la persistenza di quella drammatica frattura, prodotta dal Jobs Act, su un tema centrale come il lavoro. La riforma renziana lacerò infatti profondamente la Sinistra italiana lungo alcune dimensioni cruciali:

i) posizionamento rispetto ai rapporti di forza Capitale-Lavoro;
ii)
valori e principi di riferimento;
iii) collocazione sull’asse Destra-Sinistra;
iv) relazioni con attori sociali chiave.

Lungo le prime due dimensioni, lo smantellamento dell’articolo 18 non ha voluto soltanto perseguire la rimozione di un elemento simbolico, cardine dello Statuto dei Lavoratori, da relegare a un assetto regolativo non più al passo coi tempi; soprattutto, ha puntato all’eliminazione di un importante strumento di policy finalizzato a ri-bilanciare il rapporto di forze tra Capitale e Lavoro.

Il riposizionamento del Pd lungo l’asse Capitale-Lavoro, con chiaro spostamento verso gli interessi del primo, ha determinato una drammatica confusione nella sua collocazione politica lungo l’asse Destra-Sinistra, sia livello di élite – con impensabili tentazioni filo macroniste e, nella sfera domestica, verso Renzi e Calenda – sia di elettorato, con conseguenti gravi sconfitte e una quota importante di elettori che si sono rifugiati nel “non voto” per mancanza di una reale alternativa a Sinistra.

Infine, l’attacco frontale alla principale organizzazione sindacale del paese – la Cgil, da oltre cento anni alleato chiave delle forze socialcomuniste e loro trasformazioni successive – da parte del governo Renzi, con il recepimento delle richieste programmatiche di Confindustria nel disegno del Jobs Act ha fratturato in profondità – secondo modalità che non hanno pari nei paesi dell’Europa occidentale – quella rete istituzionalizzata di relazioni e riferimenti tra le principali forze politiche e sociali della Sinistra italiana.

Nel perfetto stile di quella “rottamazione” che ha caratterizzato la leadership renziana, tale rottura di quella comunità di riferimento, fatta di valori, collocazione politica e relazioni strutturate tra forze politiche e attori sociali ha rischiato (e rischia tutt’oggi) di risultare fatale per i destini – elettorali e di governo programmatico – della Sinistra italiana. E ciò specialmente a fronte di una Destra che, pur nelle divisioni interne, ha sempre saputo mantenere saldi, fin dalla discesa in campo di Berlusconi, gli elementi fondanti della propria area di riferimento.

Che significato hanno, da questa angolatura, i 13 milioni di Sì ai quattro quesiti referendari sul tema lavoro? Ovviamente non ha senso alcuno confrontare questi voti con i 12 milioni di preferenze ottenute dalla coalizione di destra alle elezioni politiche del 2022. Il significato politico è però del tutto evidente, e per quanto detto sopra affatto scontato. Oggi nel paese esiste un ampio blocco sociale, che con la partecipazione referendaria ha voluto manifestare un chiaro orientamento in tema di lavoro. Un orientamento che, in coerenza con la tradizione della Sinistra italiana, fa del Lavoro il punto centrale dell’azione politica ed è volto alla promozione di misure che contrastino l’elevata precarietà dell’occupazione – recentemente richiamata anche dalla Commissione Europea come problema persistente del mercato del lavoro italiano.

L’obiettivo è così temperare il principio di libertà fondativo delle economie capitalistiche con l’“accentuazione” – per dirla con Norberto Bobbio – delle ragioni dell’uguaglianza e, nel caso del quarto quesito referendario, della responsabilità.

Questo blocco sociale conta, oggi, 13 milioni di voti, molti di più della somma (11,6 milioni) di quelli ottenuti da M5S e dall’alleanza Pd-Avs-+Europa alle ultime elezioni. È un risultato importante, ed è compito delle forze politiche che si riconoscono in questo orientamento costruire un’offerta politica che possa rappresentare un’alternativa credibile al governo della destra: non è una sfida facile ma, anche alla luce del risultato del referendum sulla cittadinanza, la Sinistra non può che ripartire da qui.

*professore di Scienza Politica, insegna Comparative Welfare States, Università di Milano

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