In Palestina curare è resistere: la salute mentale diventa questione anche politica. Parliamone

  • Postato il 11 giugno 2025
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In un contesto dove gli ospedali sono un bersaglio, dove le ambulanze vengono colpite e i medici interrogati, ogni atto di cura è un atto politico. Curare, in Palestina, è resistere. È affermare la dignità umana in mezzo alla disumanizzazione. È dire: “Noi esistiamo. Siamo umani e continueremo a esistere e a prenderci cura di noi e degli altri”.

In Palestina, anche la salute mentale non è solo una questione clinica. Ma è una questione politica. È il riflesso di un’occupazione che non si limita a controllare i corpi, ma invade le menti. È il risultato di una violenza che non si esaurisce nei bombardamenti, ma si insinua nella quotidianità, nei sogni, nei silenzi. È una sfida di giustizia e autodeterminazione, perché colpisce l’identità, la memoria, la possibilità stessa di immaginare un futuro.

A Gaza, secondo il Gaza Community Mental Health Programme (2024), oltre il 90% della popolazione mostra sintomi di disagio psicologico significativo: ansia, depressione, insonnia, disturbi da stress post-traumatico. I bambini crescono tra le macerie, con il cielo che non promette mai bel tempo. La guerra è ovunque: fuori e dentro.

In Cisgiordania, la situazione è meno estrema ma non meno grave. Secondo l’Unità di Salute Mentale del Ministero della Salute palestinese, oltre il 40% degli adulti soffre di disturbi d’ansia o depressione. Tra i bambini, circa il 30% mostra segni di disagio psicologico cronico, spesso legato a incursioni militari, arresti notturni, demolizioni di case, checkpoint che trasformano ogni spostamento in un trauma.

Adulti e bambini portano il peso di traumi intergenerazionali, le donne di isolamento sociale e responsabilità familiari in condizioni di precarietà. Eppure, i centri di salute mentale sono pochi, sottofinanziati, spesso sotto attacco. A Gaza vengono bombardati. In Cisgiordania, perquisiti. I medici interrogati. I pazienti schedati. E intanto, la sofferenza cresce. Invisibile, ma devastante.

La psicologia occidentale parla di “disturbo post-traumatico”. Ma in Palestina il trauma non è “post”. È quotidiano. È strutturale. È sistemico. È Sindrome Palestinese. È il checkpoint che blocca l’ambulanza. È il drone che sorvola la scuola. È la casa demolita. È il padre arrestato. È il figlio che non torna. È la paura che non passa mai.

Eppure, nonostante tutto, la gente resiste. E qui entra in gioco un concetto che dovremmo imparare a pronunciare con rispetto: sumud. In arabo significa “perseveranza”, “radicamento”, “resistenza interiore”. È la forza di chi resta. Di chi continua a vivere, a studiare, a curare, a sognare. Di chi, ogni giorno, sceglie di non cedere. Ne parliamo spesso nella terapia di gruppo che tengo ogni settimana. Uno spazio libero e gratuito a cui puoi partecipare scrivendomi.

Uno studio condotto da Hammad e Tribe ha mostrato come i palestinesi sviluppino strategie di coping profondamente radicate nella cultura: adattamento, problem-solving, fede, solidarietà. Non sono solo meccanismi di sopravvivenza. Sono atti di resistenza. Sono modi per dire: “Esistiamo. E continueremo a esistere”. E poi c’è un altro concetto potente: resilienza vicaria. È la capacità di chi lavora con i sopravvissuti – medici, psicologi, volontari – di trarre forza dalla loro resilienza. In Palestina, ogni operatore sanitario è anche un testimone. Ogni psicologo è anche un sopravvissuto. Ogni atto di cura è anche un atto politico.

La resilienza vicaria è ciò che permette a chi cura di non spezzarsi. È ciò che trasforma la sofferenza in solidarietà, la fatica in forza collettiva. È ciò che accade quando un terapeuta, ascoltando il dolore di un bambino, ritrova il senso del proprio lavoro. Quando un’infermiera, dopo l’ennesimo turno sotto le bombe, torna a casa e prepara la cena per i suoi figli. Quando un volontario, dopo aver visto l’orrore, sceglie di restare.

Per questo, con Soleterre, stiamo costruendo in Cisgiordania – a Beit Jala – il primo centro per la cura dei traumi psichici infantili legati al conflitto e all’occupazione. Un luogo sicuro, dove i bambini possano essere ascoltati, sostenuti, accompagnati. Un luogo dove la cura diventa atto di giustizia. Tutte le informazioni sono disponibili su www.soleterre.org. Perché in Palestina, curare una ferita non è solo un gesto medico. Perché la salute mentale non può essere separata dalla giustizia. Perché non ci sarà benessere senza libertà. Perché non ci sarà guarigione senza fine dell’occupazione.

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Il Fatto Quotidiano

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