Intervista con Jane Hammond. Artista e collezionista di foto vernacolari ora al MoMA

  • Postato il 3 agosto 2025
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  • Di Artribune
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Attualmente in mostra come parte del progetto Visual Vernaculars – in corso al MoMA fino al prossimo autunno 2025 – l’opera Album (Madeline Tomaini) (2007) dell’artista statunitense Jane Hammond ha avuto l’onore di entrare a far parte delle collezioni del museo newyorkese. In occasione di questo prestigioso riconoscimento che segna una tappa importante nella sua carriera, abbiamo intervistato questa artista e collezionista di fotografie vernacolari, anche appassionata di cucina. E lo abbiamo fatto proprio nella sua casa-studio a New York.

Jane Hammond: un’accumulatrice compulsiva

New York, 26 giugno 2025. “Sono una specie di pack rat, un’accumulatrice compulsiva”. Così afferma Jane Hammond (Bridgeport, Connecticut 1950, vive e lavora a New York). L’artista statunitense vive con il marito Craig McNeer nel loft a SoHo, le cui grandi finestre affacciano su Grand Street. “Prima abitavo due strade da qui ma ero senza contratto d’affitto; la proprietaria aveva 95 anni e poi c’erano i ratti e il mio fidanzato di allora – era il 2000 – mi disse che dovevamo spostarci e potevamo vivere insieme. La gente pensa che io stia qui da decenni, forse per il fatto che sono molto disordinata, faccio tante cose”. Nota per i suoi raffinati e colorati collage su carta realizzati con diversi materiali e tecniche, tra cui pittura a mano, linoleografia, stampa digitale e assemblaggio, così come per quelli fotografici in bianco e nero di cui l’opera Album (Madeline Tomaini) (2007). Hammond lavora in maniera istintiva, procedendo per associazioni. 
Altri suoi lavori sono in collezioni quali il Whitney Museum of American Art; Metropolitan Museum of Art; MFA di Boston; National Gallery of Art di Washington; SF Moma; Bibliotèque Nationale, Parigi e Albertina, Vienna. “Seguo quello che succede. È il mio stile di creare caos in qualsiasi situazione. Molti artisti hanno bisogno di separare il luogo in cui vivono da quello dove lavorano, ma io ho sempre vissuto e lavorato nello stesso spazio. Mi piace cucinare, posso farlo e allo stesso tempo realizzare i miei lavori. Nel mio processo artistico caotico sono dentro al mondo e le cose succedono”.

Intervista a Jane Hammond

Tutto il tuo lavoro ruota intorno al materiale che collezioni, oggetti e fotografie…
All’inizio collezionavo informazioni dai libri. Per dieci anni ho insegnato a Baltimora (Maryland Institute College of Art – ndr), e per tre giorni a settimana trascorrevo le mie serate in biblioteca. Poi ho cominciato a frequentare i flea market e ad usare qualche volta il materiale che acquistavo. La nascita di internet è stata ideale. Infatti, andare in un mercatino delle pulci può sorprendere e si può trovare qualcosa che neanche si pensava di volere, ma se si cerca qualcosa di specifico – magari delle piume di pappagallo rosse – si potrà tornare lì per cento anni ma sarà improbabile trovarle. 

Cosa preferisci tra i due?
A me piacciono entrambi, la serendipità del mercatino dell’usato così come la ricerca mirata. Quanto al mio interesse per la fotografia è nato da quello per la carta e gli efèmera. Nel 2003 ho realizzato alcuni Scrapbookche contengono oggetti di carta, origami, francobolli, spago, fiori essiccati, scatole di fiammiferi… Di questi album di ricordi mi piace che gli oggetti che contengono non devono avere necessariamente una connessione tra loro, in comune hanno il fatto di essere tutti raccolti nello scrapbook. In quella serie di lavori, però, non c’erano fotografie, solo dopo un po’ ho pensato che avrei potuto cercare delle immagini fotografiche specifiche.

Così hai cominciato ad acquistare fotografie vernacolari sia nei mercatini dell’usato che su internet…
Sì, ho cominciato a comprare online tantissime foto, realizzando che in tre settimane ne avevo acquistate novecento! Su eBay si possono trovare cose incredibili. Ad esempio digitando orsi polari, ho trovato la foto di un uomo con un costume da orso polare. Era veramente eccitante per me fare la ricerca e trovare subito qualcosa che avesse tante interpretazioni, come l’immagine di una torta di compleanno a forma di orso, oppure un orso vero per strada. 

A quanto “ammonta” il patrimonio di immagini accumulate?
Ora ho qualcosa come 20mila fotografie, soprattutto snapshots e in alcuni casi stampe per giornali e riviste, ma mai fotografie d’arte. Una volta ho deciso di trascorrere con mio marito una settimana a Berlino, perché in Germania si producono macchine fotografiche con ottiche di grande qualità, ma non abbiamo visto niente della città solo fotografie negli scantinati dove ne avrò acquistate 1 o 2 mila. Ma non sono realmente interessata a possedere l’oggetto in sé, mi interessa quello che rappresenta. Infatti, certe volte prendo in prestito le foto da altri collezionisti, tra cui Peter J. Cohen che è uno dei più grandi collezionisti statunitensi di snapshots.

Come è nata l’idea di utilizzare queste fotografie trovate nei tuoi lavori?
Intorno al 2002-2003, ho acquistato in un mercatino di New York un album di una coppia in viaggio di nozze nei Paesi Bassi e sei settimane dopo, in un diverso flea market a Manhattan, ne ho acquistato un altro. Quando sono arrivata a casa ho scoperto che si trattava della stessa coppia. A quel punto ero veramente intrigata dal fatto che dietro quelle foto ci fossero delle persone. Non m’importava tanto chi fossero, ma dei piccoli dettagli che emergevano dall’immagine. Mi sentivo un po’ come un detective in un romanzo giallo. Quando, però, si colleziona materiale come faccio io, c’è bisogno di organizzazione, altrimenti è impossibile trovare quello che si cerca. Un giorno avevo quelle prime novecento fotografie sparse sul tavolo e ho cominciato a dividerle per categorie, chiedendomi quale fosse la categoria esatta in cui collocarle: uomini e donne, persone sedute, persone sdraiate fuori o persone con il cane…

E poi?
A un certo punto sono andata in cucina per preparare la cena e mentre cucinavo mi è venuta in mente un’immagine che ero certa di aver visto tra le foto sul tavolo. Quando, poi, sono tornata nello studio ho realizzato che quell’immagine, in realtà, era la combinazione di quella di una donna presa da una foto e di un uomo presa da un’altra, in un parco che proveniva da un’altra foto ancora. In quel momento ho realizzato che volevo ottenere un’immagine che avesse la verità di una fotografia in bianco e nero, ma che fosse frutto della mia immaginazione. La mia idea era che il prodotto finale non fosse una stampa digitale ma una stampa fotografica, perché pensavo che la fotografia alla gelatina ai sali d’argento fosse portatrice di un’attualità, diversamente dalla stampa digitale che è più surreale. La mia sfida è stata quella di ottenere una foto da qualcosa che non è mai esistito. Sono riuscita a farlo grazie alla collaborazione di una professionista, una vecchia amica che lavorava al fotoritocco e che aveva grande capacità di utilizzare Photoshop. Si trattava anche di trasformare un negativo digitale in uno analogico da stampare in camera oscura.

Qual è l’iter dall’idea alla realizzazione dell’opera?
Qualche volta i miei lavori fotografici nascono guardando le fotografie, altre da un’idea in cui associo le immagini. Di solito quando ho un’idea cerco in varie direzioni e se non trovo quello che ho in mente lo fotografo da me. Posso comprare un orsacchiotto, un tamburo o un certo modello di scarpe, li fotografo e poi quello che scatto viene inserito nelle immagini trovate. Una volta ho cucito una gonna, l’ho messa sul manichino con il ventilatore acceso e l’ho fotografata, sostituendola a quella indossata da una ragazza in una vecchia foto che non si vedeva bene perché era sull’altalena. Una mia opera può essere composta anche da 30 immagini tra quelle trovate e qualcuna scattata da me. Per prima cosa fotocopio tutte le immagini, le ritaglio e faccio un collage che è come uno schizzo, poi lo mostro a chi si occupa di elaborare il file digitale. Certe volte basta poco tempo, altre necessitano parecchie ore, anche perché le idee possono cambiare in corso d’opera. Anche trasformare il file digitale in negativo analogico richiede del tempo, poi bisogna stamparlo in camera oscura. Quando si fanno le prove di stampa, sono io a decidere se la tonalità va bene.

Jane Hammond, Minoan Fish Vase with Tree Fern, Hyacinth Beans and Monkey Face Orchid, 2025 (Courtesy of the Artist)
Jane Hammond, Minoan Fish Vase with Tree Fern, Hyacinth Beans and Monkey Face Orchid, 2025 (Courtesy of the Artist)

Insieme alle fotografie vernacolari, nell’opera Album (Madeline Tomaini) sono presenti anche delle foto in cui sei ritratta. Qual è il significato?
Della fotografia mi piace che contiene una serie di informazioni comuni a tutte le persone. Non so esattamente perché in Album (Madeline Tomaini) abbia inserito le mie fotografie, ma è stato divertente. Ci sono 30 foto in cui sono ritratta. Ho preso tutte quelle che possiedo – qualcuna chiedendola in prestito a mia madre – da quando ero piccola fino alla mezza età, scegliendo quelle più interessanti per inserire, a modo mio, la mia vita in quella degli altri. In ciascuna di quelle foto trovate ci sono io, benché non abbia mai fatto nessuna delle cose che fanno quei soggetti. Nel momento in cui realizzavo questo lavoro ero molto interessata a quello che chiamo «elasticità del significato». In particolare all’«elasticità del sé», ovvero al concetto di un’esistenza definita non dal destino ma da un flusso di contingenze. La vita come confluenza di tanti percorsi incrociati. Quando l’opera è stata esposta al McNay Art Museum di San Antonio, Texas – prima di essere acquisita dal MoMA grazie a Peter Galassi – una volontaria mi fece notare che era come se contenesse l’insieme di tutte le possibilità della vita di una donna.

Ti sei trasferita a New York nel 1979, ma sei nata e cresciuta nel Connecticut. Dove esattamente?
Sono nata a Bridgeport e da piccola ho vissuto in Connecticut. Ho avuto un’infanzia molto complicata che ha incluso tre matrimoni e tanti spostamenti. Mia madre, infatti, ha avuto tre mariti e ci sono state delle volte in cui altre persone si sono prese cura di me. Ho avuto 5 famiglie e ho vissuto in 30 città. Probabilmente una cosa del genere non è molto comune in Italia, ma anche in America è abbastanza unica. Per due anni ho vissuto anche in Alaska, che all’epoca non era ancora uno stato ed era come il Wild West. Penso che l’elemento comune alle mie opere è che sono tutte dei collage con tanti elementi che si mettono insieme, poi si separano e si ricongiungono ancora una volta. C’erano anche tanti segreti nella mia famiglia. Ad esempio, il secondo marito di mia madre aveva ucciso qualcuno, è stato condannato ed è andato in prigione. Quando ci sono dei segreti in famiglia, se non si fa una grande riunione dove si spiega tutto – cosa che non è successa da noi – ognuno comincia a raccontare una versione diversa della storia.

Con tua nonna materna, Edythe Jarvis, hai fatto molti viaggi visitando anche l’Italia. È stata una figura importante per te?
Sì è stata molto importante nella mia vita. Ora che ci penso, lei scattava molte fotografie – più di tutti gli altri della famiglia, prevalentemente donne – e dipingeva, anche se non si definiva artista. Abbiamo fatto tante cose insieme come cucire costumi e dipingere. Era una nonna giovane, perché quando sono nata aveva 42 anni. Nella sua casa c’erano molti oggetti provenienti dall’Egitto e lei preparava anche dei piatti egiziani, perché suo padre era nel business del tabacco e girava il mondo per comprare tabacco, perciò da piccola aveva vissuto in Egitto, Cina e Turchia.

Hai affermato che ti piace cucinare, qual è per te la relazione tra arte e cucina?
La relazione è nel mettere insieme gli ingredienti. Mi piace molto acquistare prodotti al mercato degli agricoltori dove non so mai esattamente quello che troverò. Mi piace la sorpresa, proprio come quando nel flea market trovo fotografie che non mi aspetto. Dopo mi chiedo come metterle insieme. La stessa cosa è con il cibo. L’incontro è interessante. Certe volte quando cucino l’ispirazione arriva dagli ingredienti, altre da quello che leggo – ho molti ricettari – o magari da quello che qualcun altro cucina per me. Ogni sera, comunque, riesco a preparare una buona cena. Non ho una specialità. Certe volte m’ispiro alla bolognese della famosa chef Marcella Hazan che richiede 5 ore di cottura. Altre volte improvviso, come qualche sera fa. Ho detto a Craig, mio marito, questo è un piatto alla Van Gogh! Non lo avevo mai fatto prima. Ho messo a bollire le patate e quando erano quasi pronte, ho buttato nella stessa acqua il kale e il cavolo. Ho ripassato il tutto in padella con rosmarino, aglio e olio, mentre nell’acqua di cottura ho messo a cuocere le uova in camicia. Non sono sicura che preparerò di nuovo questo piatto, ma in quel momento ero molto orgogliosa.

Manuela De Leonardis

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L’articolo "Intervista con Jane Hammond. Artista e collezionista di foto vernacolari ora al MoMA" è apparso per la prima volta su Artribune®.

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Artribune

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