Inutile pensare che la tecnologia ci salverà: i dati della ricerca scientifica non sono mai neutri
- Postato il 4 maggio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Sara Gandini e Paolo Bartolini
La nostra è l’epoca delle emergenze. L’insostenibilità di un sistema basato sulla gestione militare delle controversie internazionali, sulla strumentalizzazione delle paure e sulla digitalizzazione integrale delle esperienze umane è davanti ai nostri occhi. I danni del tecno-capitalismo sono numerosi, e a cascata i problemi per la salute umana si moltiplicano.
La reazione più frequente del mainstream, a fronte di queste criticità innegabili, è suggerire che ogni difficoltà potrà essere superata con le applicazioni tecniche della scienza contemporanea. Qualsiasi crisi può essere sciolta e superata mediante l’intensificazione delle stesse logiche che l’hanno prodotta. Questo paradosso è decisivo, e aiuta a comprendere le soluzioni autoritarie alle emergenze contemporanee (sanitaria, climatica, geopolitica, democratica…) adottate dai governi neoliberali.
Il mito dell’oggettivazione del mondo, e di una conoscenza corrispettiva che si avvale di formule, calcoli ed esperimenti in laboratorio, ci ha fatto perdere di vista l’intreccio permanente che esiste tra scienza e condizioni economiche, finanziarie e culturali del tempo.
La scienza, infatti, non è qualcosa che possa essere separato dalle forze e dagli interessi che plasmano l’intero campo sociale. Ecco perché i dati che emergono dalla ricerca scientifica hanno un loro peso specifico, ma non sono “neutri” e non possono essere considerati astrattamente come “verità oggettive” che la politica dovrebbe solo recepire per attuare le sue scelte in modo informato.
La gestione della pandemia/sindemia è stata paradigmatica fin dall’inizio dell’emergenza: si è chiesto agli scienziati di fornire certezze che non potevano esserci, mentre si è impedito a una parte di essi (e ai comuni cittadini) di mettere in dubbio le decisioni che, da lì a poco, avrebbero impattato enormemente sulla salute del paese da un punto di vista sanitario, economico e simbolico.
Nel frattempo le evidenze scientifiche che gradualmente emergevano (la dannosità dei lockdown generali e prolungati, l’incapacità dei vaccini di frenare i contagi, l’utilità degli anti-infiammatori per la cura a domicilio della Covid-19, il fatto che non fosse vero che il virus circolasse soprattutto negli ambienti scolastici) sono state sottaciute secondo precisi progetti di fronteggiamento della crisi.
La politica, in altri termini, è stata la protagonista, anche se si è fatta scudo degli scienziati. Si è avvalsa selettivamente degli strumenti scientifici per imporre precise misure di sanità pubblica, contrastando i processi democratici che potessero entrare nel merito della loro validità. Appellarsi dunque alla scienza per screditare le forme di dissenso, che riguardano scelte importanti con ricadute sulla vita delle persone, significa farne un uso improprio, poiché qualsiasi conoscenza raggiunta dai saperi scientifici, oltre a essere esposta alla falsificazione popperiana (cioè: le verità scientifiche sono tali fino a quando non vengono smentite e sostituite da altre più credibili in certe circostante storiche), non può essere usata dai decisori politici, in un’ottica di epidemiologia difensiva, per non assumersi le loro responsabilità.
Ogni decisione di sanità pubblica dovrebbe essere dibattuta approfonditamente non solo nello scambio tra “esperti”, ma con tutti gli strati della società che subiranno gli effetti delle scelte o si avvantaggeranno per queste.
Quando abbiamo ribadito, più volte, che il dispositivo del green pass era inutile e controproducente, non l’abbiamo fatto solo perché la scienza confermava la pari contagiosità di vaccinati e non vaccinati, ma in quanto una forzatura del genere scaricava su una minoranza di cittadini delle responsabilità che, invece, erano da ricercarsi su un piano sistemico nel blocco di interessi che lega industria farmaceutica, politici, medici, aziende impegnate nel campo della sanità privata ecc.
Non possiamo permetterci di mettere da parte ciò che è successo durante la pandemia perché il processo di colpevolizzazione dei cittadini non solo ha generato sfiducia verso la scienza e le istituzioni, ma ha anche sviato l’attenzione dalla cura indispensabile del servizio sanitario nazionale e della medicina territoriale. Non a caso le diatribe social tra opinioni incompatibili e divergenti sugli eventi di quegli anni raramente si soffermano sul tema del servizio sanitario e della democrazia cognitiva. Preferiscono, piuttosto, avvitarsi sulla questione del vaccino e dei (reali o presunti) danni alla salute che possono avere arrecato, elencando fonti e paper che confermerebbero la propria posizione.
Succede allora che una critica necessaria delle contraddizioni e delle ingiustizie perpetrate con la governance neoliberale dell’emergenza Covid-19 si disperda nella citazione permanente di qualche nuovo studio che porterebbe alla luce del sole la natura maligna o salvifica dei vaccini.
In fondo la tentazione di demonizzare il sapere scientifico è simmetrica alla postura di chi colpevolizza i cittadini inserendoli in qualche categoria squalificante (presto fatta circolare da un giornalismo scandalistico e superficiale). Invece la scienza va studiata come un insieme di pratiche e discorsi che mai si separa dallo spirito del proprio tempo nelle sue declinazioni economiche e politiche.
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