José Gomes Ferreira, la poca realtà di un poeta militante (Traduzione Massimiliano Damaggio)

  • Postato il 10 ottobre 2025
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José Gomes Ferreira (1900-1985), portoghese, è stato “poeta militante” per eccellenza. Tant’è che la sua opera completa ha per titolo proprio Poeta militante. Eppure quanto sogno, quanta immaginazione nella sua penna. “Quanta poca realtà”, si direbbe a una prima lettura, se per “realtà” intendiamo il riferimento alle cose e alle vicende, alla loro semplice comparsa in quanto tali. Ma in ogni “cosa” (dovunque insomma) materiale o meno, esiste un nòcciolo di pura creazione mai esaurita, sempre in trasformazione. È per questo che quando rivediamo una “cosa” dopo molto tempo ci sembra diversa – anche se è proprio la stessa. È così che José Gomes Ferreira lavora sulla realtà, sul suo cuore più intimo: l’unico aspetto della realtà che dobbiamo cambiare (o veder cambiare) se davvero vogliamo cambiare qualcosa.

M. D.

***

Da cosa sono
a cosa penso
aleggia un volo
sospeso…

Ma tanto sottile
che non lega
il pantano vile
alla nube d’argento.

(Uomo: non vergognarti
d’essere pantano come me.
È il pantano che sogna
la nuvola del cielo).

***

Anche vivere sempre stanca

Il sole è sempre lo stesso e il cielo azzurro
ora è azzurro, nitidamente azzurro,
ora è cenere, nero, quasi verde…
Ma non è mai di un colore inatteso.

Il mondo non si modifica.
Gli alberi danno fiori,
foglie, frutti e uccelli
come macchine verdi.

Anche i paesaggi non si sono trasformati.
Non cade neve rossa,
non ci sono fiori che volano,
la luna non ha occhi
e nessuno disegnerà occhi alla luna.

Tutto è uguale, meccanico ed esatto.

Per giunta gli uomini sono gli uomini.
Sospirano, bevono ridono e digeriscono
senza immaginazione.

E ci sono quartieri miserabili sempre gli stessi,
discorsi di Mussolini,
guerre, orgogli a oltranza,
automobili di corsa…

E mi obbligano a vivere fino alla Morte!

Ma non era più umano
morire per un pochino,
di quando in quando,
e ricominciare poi
trovando tutto più nuovo?

Ah! Se potessi suicidarmi per sei mesi,
morire su un divano,
la testa sul cuscino,
fiducioso e sereno nel sapere
che tu vegliavi, amore mio del nord.

Se venissero a chiedere di me
diresti con il tuo sorriso
dove arde un cuore in melodia:
“S’è ucciso stamattina.
Adesso non lo resuscito
per una sciocchezza”.

E poi verresti, soavemente
a vegliarmi, sottile e premurosa,
in punta di piedi, per non svegliare
la Morte ancora bimba nel mio grembo.

***

Mai trovato un uccello morto nel bosco.
Tutta la mattina a camminare a vuoto
per cercare fra gli alberi
un cadavere minuto
che desse sangue ai fiori
e ali alle foglie secche…
Gli uccelli quando muoiono
cadono nel cielo.

***

Sono entrato nel caffè con un fiume nella tasca
e l’ho posato a terra
per vederlo scorrere
dall’immaginazione…

Poi ho tirato fuori della tasca del gilet
nuvole e stelle
e ho steso un tappeto
di fiori
per concepirle.

Dopo, appoggiato al tavolo
ho estratto dalla bocca un uccello che cantava
e ne ho adornato la Natura
degli alberi intorno
perché profumassero
al chiardiluna
che immagino.

E ora sono qui a sentire
la melodia senza contorno
di questo caso dell’esistere
– dove solo cerco la Bellezza
per illudermi
di un destino.

***

Che peccato non esser stato io uno dei primi
uomini a inventare le parole
per creare la verità!
Le ho trovate tutte già fatte
certe dolci, altre amare,
queste rudi, quelle imperfette,
casualità di suoni
– mare di schiuma di gabbiani e onde.
Con questo profumo così buono
di realtà.

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Il Fatto Quotidiano

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