Kathryn Bigelow e la follia nucleare del film “House of Dynamite”

  • Postato il 7 settembre 2025
  • Cinema & Tv
  • Di Artribune
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Kathryn Bigelow mancava dalla regia da Detroit (2017), si era come dissolta nell’ombra di un cinema che sembrava aver detto tutto sulla guerra, il terrorismo, le tensioni geopolitiche. Invece con House of Dynamite, in concorso a Venezia.82, la regista americana torna al Lido con un film che ha tutta la crudezza di una riflessione su di un presente che ha normalizzato l’impensabile.

“Quando ero bambina ci facevano nascondere sotto i banchi di scuola per proteggerci da una bomba atomica”, ha dichiarato Bigelow. “Era assurdo, lo è ancora di più oggi, ma allora la minaccia sembrava imminente. Oggi siamo forse più vicini alla fine, eppure c’è una sorta di intorpidimento collettivo”

House of Dynamite: un thriller in presa diretta

Il cinema come campanello d’allarme, dunque. Ma quale allarme? House of Dynamite è strutturato come un thriller procedurale, il genere che Bigelow ha reso marchio di fabbrica. La cinepresa a mano pedina militari, analisti, staff della Casa Bianca, nel momento in cui un segnale d’allarme annuncia un possibile attacco nucleare. 

Lo spettatore diventa “embedded” grazia alle riprese con macchina a mano e montaggio dai ritmi alquanto vertiginosi, che ti fan vivere in stato di allarme per la durata del film. Si vive in diretta l’avvistamento, la verifica, le ipotesi d’intelligence (dal sottomarino fantasma della Corea del Nord a una Cina che arma l’intelligenza artificiale) e la reazione disperata e stranamente inefficiente dei sistemi difensivi americani.

La regista utilizza una scelta formale che sorprende: il film è diviso in tre sezioni, ognuna delle quali racconta lo stesso momento, l’ora zero dell’allerta nucleare, da un punto di vista differente. Una moltiplicazione del tempo che non solo frammenta l’azione, ma la dilata, consegnando al pubblico una sensazione di sospensione claustrofobica. Non è la paura lacerante del vecchio The Day After (1983), film che traumatizzò una generazione: qui domina un’inquietudine sottile, persistente, quasi domestica. 

Una trama che non convince del tutto

Non mancano però le crepe, in una storia che ha origine dalla penna del controverso giornalista e uomo di cinema Noah Oppenheim. L’immagine di una Casa Bianca impreparata, governata da una coppia presidenziale che rimanda agli Obama, sembra a tratti poco credibile e decisamente inattuale oggi che a dominare la scena è la trumpmania in tutte le sue forme, oggettive e soggettive. Il che fa pensare a cosa sarebbe accaduto oggi se alla guida delle forze armate ci fosse Trump.

L’ammonimento filmico di Bigelow

Più che un film-catastrofe, House of Dynamite è un esperimento mentale in forma di cinema, un tentativo di avvertimento ai naviganti: in un mondo imbottito di armi atomiche pronte ad esplodere “non si può chiamare difesa ciò che garantisce solo la distruzione totale”

Bigelow firma così un’opera che si colloca come terzo capitolo ideale di una trilogia iniziata con The Hurt Locker e Zero Dark Thirty. Se in quei film la minaccia era circoscritta a un teatro di guerra o a un nemico invisibile, qui diventa assoluta, globale.

Nicola Davide Angerame

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Artribune

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