Khan a Londra e Mamdani a New York: l’Italia non è pronta per un sindaco straniero. E il problema è culturale

  • Postato il 6 luglio 2025
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Quando ho visto la foto di Sadiq Khan festeggiare la sua terza vittoria come sindaco di Londra, ho sorriso. Pochi giorni fa, leggevo che a New York, Zohan Mamdani, figlio di immigrati ugandesi di origine indiana, era uno dei nomi più forti della nuova politica urbana. Due capitali simbolo dell’Occidente moderno, due città multietniche, due esempi viventi di come l’integrazione, se ben governata, possa diventare rappresentanza.

E poi ho pensato all’Italia. E mi sono chiesto, con una certa amarezza: ma da noi, potrebbe accadere lo stesso? Una grande città italiana, come Milano, Roma, Napoli o Torino, è davvero pronta a eleggere un sindaco di origine straniera?

La risposta, a mio avviso, è no. E non perché manchino persone capaci, visionarie, preparate. Ma perché manca ancora qualcosa di molto più importante: la volontà collettiva di accettare che l’Italia di oggi non è più (solo) bianca, cattolica e “doc”.

Secondo me, il caso di Sadiq Khan è emblematico. Figlio di un autista di autobus pakistano, cresciuto in una casa popolare, avvocato dei diritti civili prima di diventare politico, incarna la narrazione perfetta del riscatto sociale. Ma la cosa più potente è che oggi Khan è non solo il sindaco di Londra, ma soprattutto un simbolo di cosa può essere una metropoli nel 2025, un luogo dove conta cosa fai, non da dove vieni.

Allo stesso modo, Zohan Mamdani, pur ancora emergente, rappresenta una generazione nuova di politici americani, giovani, con radici altrove ma lo sguardo fisso sull’America reale. E gli elettori lo premiano. Perché? Perché parlano la loro lingua, affrontano i problemi veri: trasporti, case, diritti, lavoro. Non predicano integrazione, la incarnano.

E in Italia, purtroppo, siamo fermi a un’altra fase. Io penso che in Italia manchi il coraggio di accettare che l’identità nazionale è cambiata, e continuerà a cambiare. Gli ultimi dati ci dicono che oltre il 10% della popolazione residente è straniera. E i figli di questi cittadini, spesso nati e cresciuti qui, parlano dialetto meglio dei nostri politici, ma continuano a essere visti come “estranei”.

Prendiamo ad esempio una ragazza come Djarah Kan, scrittrice italo-ghanese, o una giornalista come Karima Moual. Persone preparate, italiane a tutti gli effetti, ma che sui social vengono ancora trattate come ospiti indesiderati, “privilegiate”, “infiltrate”. Figuriamoci candidarle a sindaco di Milano o Torino.

A mio avviso, il problema è culturale prima che politico. L’idea che un sindaco debba avere “sangue italiano” per rappresentarci affonda le radici in un’identità costruita sull’esclusione. Abbiamo fatto l’Italia, ma non abbiamo ancora fatto gli italiani nuovi. Anzi, quando qualcuno prova a mettersi in gioco, scattano subito i riflessi condizionati: “Ecco l’effetto Zingaretti”, “ci vogliono invadere”, “prima gli italiani”. Ma italiani chi, esattamente?

Ritengo che l’ostacolo principale non sia il razzismo urlato, ma quello silenzioso e istituzionalizzato. Il fatto che ancora oggi una persona nata in Italia da genitori stranieri debba aspettare la maggiore età per chiedere la cittadinanza è un sintomo. Non un problema tecnico, ma un messaggio culturale: “Tu non sei dei nostri, almeno non ancora”.

Nel Regno Unito, invece, Khan è stato eletto con milioni di voti da cittadini bianchi, neri, asiatici, cristiani, musulmani, atei. Perché, a prescindere dalla sua origine, è stato percepito come uno di loro. A New York, Mamdani è stato votato anche da ebrei ortodossi, afroamericani, latini. Perché ha parlato di affitti, non di identità.

In Italia, al contrario, un candidato con un cognome straniero è ancora “il candidato immigrato”. Non importa se è nato a Parma, ha studiato a Bologna, lavora da vent’anni e paga le tasse. Verrà comunque trattato come “quota etnica”.

Secondo me, tutto questo ha un costo enorme, quello umano, politico e simbolico. Perché rinunciamo a una classe dirigente potenziale solo per paura. Paura del cambiamento, dell’alterità, del nuovo che avanza. Una paura che, spesso, viene alimentata proprio da chi ha interesse a mantenere il potere in mano a pochi volti familiari.

Eppure, qualcosa si muove. In piccolo, certo. In alcuni quartieri di Bologna, a Torino, a Palermo, ci sono consiglieri comunali di origine straniera. Ma sono ancora eccezioni, non la norma. Gocce in un mare di diffidenza.

A mio parere, la vera domanda da farci non è “siamo pronti?”, ma “perché non lo siamo ancora?”. Cosa ci impedisce, come Paese, di abbracciare la realtà che ci sta sotto gli occhi? Perché un ragazzo nato a Milano da genitori filippini non può immaginare di guidare la sua città? Perché una donna marocchina con laurea e carriera politica dovrebbe fermarsi al consiglio di zona?

Non è questione di buonismo, né di “quote”. È questione di democrazia. Di rappresentanza reale. Di futuro. Credo che l’Italia abbia bisogno di una scossa culturale, più ancora che politica. Dobbiamo smettere di pensare all’identità come a un recinto. E iniziare a vederla come un ponte.

E allora, forse, tra qualche anno, potremo leggere su un giornale italiano: “Eletto il primo sindaco di origine straniera in una grande città italiana”. E non ci sembrerà più strano. Ci sembrerà solo giusto.

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