La chiamano ‘ottimizzazione’ ma è uno schiaffo: i tagli di Booking e gli effetti che mi preoccupano
- Postato il 25 luglio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Chi mi segue lo sa, mi occupo di musica, quella roba che consola. Ma oggi scrivo di lavoro e licenziamenti, quella roba che ti sveglia di notte con l’ansia e nessuna melodia.
Già, perché c’è qualcosa di profondamente stonato nel modo in cui le grandi aziende annunciano i propri tagli. Una lingua neutra, levigata, fatta di “ottimizzazione”, “agilità”, “investimenti saggi”. Ma dietro a queste parole – che potrebbero arrivare da un algoritmo, più che da un essere umano – ci sono nove lavoratori italiani che perderanno il posto. Persone in carne e ossa, non unità statistiche di un foglio Excel.
Booking.com – piattaforma che mette in contatto le strutture ricettive con le persone in cerca di alloggi e altri servizi per vacanze o viaggi di lavoro, con sede ad Amsterdam, dove è stata fondata nel 1996 –, taglia nove posti in Italia. “Riorganizzazione globale”, dicono. Tradotto: risucchiano l’anima dei dipendenti per spremere un altro punto percentuale di efficienza da offrire in sacrificio al dio azionista. Nove su 150: secco, pulito, chirurgico. La parola d’ordine? Ottimizzazione. E giù col mantra aziendalese: agilità, velocità, automazione. Tutto bellissimo finché non sei tu a dover restare agile nel trovare un affitto, veloce nel fare la spesa con lo stipendio dimezzato, automatizzato nel rassicurare i figli che va tutto bene, che non sei stato “ottimizzato” fuori dal mondo.
E non c’è nemmeno una crisi. Non ci sono bilanci in rosso, né cali drammatici di fatturato. Solo un bisogno tossico di restare “competitivi”, come se la concorrenza fosse un uragano che ti sradica la dignità se non ti inchini abbastanza in fretta. Così via con i tagli, via con le giustificazioni a freddo. E a rendere tutto più osceno, i questionari interni: i lavoratori – dicono loro – non si sentono più parte del team. Giusto, quindi, accompagnarli alla porta. Il senso di appartenenza come termometro per la ghigliottina. I sindacati hanno chiesto alternative: ricollocamenti, ammortizzatori, soluzioni. Risposta dell’azienda: una mancia e lo specchietto per le allodole. E poi l’arroganza di decidere unilateralmente chi resta e chi se ne va. Come se le vite fossero appunti su un foglio Excel, cancellabili con un click.
Ma questa storia non è una notizia, è uno schema. Lo stesso che si ripete ogni volta che una multinazionale “si adatta” al mercato: taglia il ramo che fruttava, brucia la terra sotto i piedi dei lavoratori, ingrassa i margini e si lava la coscienza con un comunicato stampa. È così che funziona l’economia digitale: collettivizzare le perdite, privatizzare i profitti. Succhiare risorse finché fa comodo e poi mollare il cadavere alla comunità. E qui la cosa si fa perfino grottesca. Perché molti di quei lavoratori erano lì fin dall’inizio. Anni di carriera, di sudore versato sulle scrivanie. Gente che ha fatto crescere Booking in Italia, che ha resistito a pandemie e crisi varie, e adesso viene scaricata senza nemmeno un grazie, senza uno straccio di confronto. È la fedeltà ricambiata col silenzio. L’esperienza trattata come zavorra.
Ma è anche una questione di metodo. In un Paese che straparla di “centralità del lavoro”, queste decisioni dovrebbero provocare un terremoto, invece passano in sordina, soffocate dal rumore bianco dell’indifferenza. È il rumore più pericoloso di tutti: quello che ci abitua a tutto, perfino all’ingiustizia. Oggi sono nove. Domani saranno novanta, novecento. Mille. E se passa il principio che si possa licenziare senza crisi, senza motivo, senza spiegazioni, allora nessuno è più al sicuro. I sindacati hanno proclamato lo stato di agitazione. E noi? Noi quando ci agitiamo? Perché se la riorganizzazione è sempre sulle spalle degli stessi, allora non è riorganizzazione, è sopraffazione. È violenza travestita da efficienza. È uno schiaffo dato col sorriso aziendale sulle labbra.
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