La ‘febbre delle pecore’ spaventa il centro Italia: oltre 400 focolai in 4 regioni. Gli allevatori denunciano: “Nessun piano di prevenzione, tutto a carico nostro”
- Postato il 27 luglio 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
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Edema nella bocca, zoppia, difficoltà a nutrirsi e, per molti esemplari, la morte. La blue tongue, cioè la febbre catarrale degli ovini sta mettendo a dura prova gli allevamenti del centro Italia. Trasmessa da insetti vettori, in particolare moscerini del genere Culicoides, tra giugno e luglio, nelle quattro regioni più colpite quest’anno, Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria ci sono stati già oltre 440 focolai. Un numero sicuramente alto se si pensa che nel 2024, nello stesso periodo, i focolai si erano concentrati al nord, mentre nel centro Italia c’erano stati pochissimi casi o addirittura nessuno. L’incidenza, cioè il numero di animali malati rispetto al totale, certo non è altissima (tra il 4 e il 5% in ogni regione) come spiega al fattoquotidiano.it anche la presidente di Coldiretti Marche, Maria Letizia Gardoni. Eppure, guardando i dati del bollettino veterinario, la mortalità è alta, sfiora il 50% dei malati e per gli allevatori è un duro colpo. Senza dimenticare, ricorda il direttore di Coldiretti Abruzzo, Marino Pelati, che un animale malato che guarisce “ci mette due o tre anni per riprendersi e non si riprende mai del tutto”.
Anche Silvia Bonomi, titolare dell’Azienda Agricola la Sopravvissana dei Sibilini di Visso, nel maceratese, lancia l’allarme. E tramite i canali social dell’azienda specifica cosa non è andato nella gestione dell’epidemia da parte, soprattutto, della Regione. “Nessun piano di prevenzione organizzato, tutto lasciato al libero arbitrio e soprattutto secondo le possibilità economiche del singolo. Nessun rimborso ufficiale. Nessun sostegno per l’acquisto dei repellenti. Nessuna disinfestazione pubblica, mirata, periodica, a ridosso delle Aziende zootecniche ovine, bersaglio della malattia. Nessun attuale rimborso per disinfestazioni effettuate con buonsenso, in autonomia, a scopo preventivo”. Insomma per gli allevatori, denuncia, solo spese, con il timore di “perdere gli animali, i sacrifici di una vita, i legami con la propria terra”. La stessa terra, nel caso di Giulia e Silvia, che nel 2016 ha tremato lasciando dietro di sé una scia di macerie e difficoltà.
Altre regioni d’Italia, come ad esempio in Piemonte e in Lombardia, dati i numeri elevati del 2024, sono corse ai ripari, introducendo delle vaccinazioni totalmente a carico delle aziende sanitarie. Ma nel centro Italia non è stato così, complice l’assenza di casi dello scorso anno. Nelle Marche in soli due mesi ci sono stati, bollettino alla mano, 69 focolai con circa 1000 animali malati di cui più di 500 morti. In Abruzzo ci sono stati 178 focolai con oltre 500 animali malati e più di 200 morti. In Umbria i focolai sono stati 66 con oltre 700 animali malati e più di 600 morti. Nel Lazio sono stati coinvolti 146 focolai con più di 1900 animali malati e più di 1100 morti.
Coldiretti preoccupata – La malattia, ci spiega ancora la presidente di Coldiretti Marche, Maria Letizia Gardoni, è anche una conseguenza del cambiamento climatico: “Viene trasmessa da una zanzara che prolifera in determinate condizioni meteo. Quest’anno la primavera molto piovosa e poi il picco di caldo a giugno le hanno permesso di proliferare“. Comprensibile, secondo la presidente, non aver avviato una campagna vaccinale preventiva visti i pochi casi dello scorso anno. Ora, però, questa mancata prevenzione pesa sul settore. “La zootecnica ha risentito più di tutti dei rincari energetici e delle materie prime – denuncia Gardoni – A questo aggiungiamo poi che, con i capi malati, si registrano cali della produzione di latte di circa il 40%. Ma i danni agli allevamenti sono legati anche alle perdite di animali, agli aborti, e alle limitazioni agli spostamenti, importanti nel settore ovino”. Senza dimenticare le speculazioni già partite dopo i primi casi: se prima smaltire una carcassa costava 70 euro, dopo i primi casi il costo è salito a 90 euro. I “consigli” di Coldiretti Marche sono gli stessi messi a punto dal Servizio Veterinario della Regione, e cioè “vaccinazioni, disinfestazione, impiego di repellenti prima delle movimentazioni, confino notturno dei capi in ricoveri con zanzariere ed eliminazione dei ristagni d’acqua”, anche se, “l’unico modo certo per contenere l’epidemia è la vaccinazione di massa”.
Sicuramente “la preoccupazione è alta“, le fa eco il direttore di Coldiretti Abruzzo, Marino Pilati. “La produzione standard potrebbe abbassarsi e questa sarebbe un’ennesima mazzata per la situazione allevatoriale in Abruzzo che negli ultimi dieci anni è in discesa sia per l’aumento dei costi che per il problema, atavico, di mancanza di manodopera”, spiega al Fattoquotidiano.it, sottolineando che ciò di cui c’è bisogno ora sono “ristori per gli agricoltori che hanno subito perdite” che non vuol dire solo il valore assoluto del danno “ma anche ristorare per un patrimonio genetico che si è creato nel tempo”. I costi vivi, immediati, ci spiega, sono quelli dei repellenti, che “vanno dati ogni 20 giorni” a causa del vettore che è “molto veloce”: il prezzo si aggira sugli 80 euro per 20 pecore, che significa, su un gregge medio di 500 pecore, circa 2000 euro ogni 20 giorni. Poi ci sono i vaccini, che “funzionano ma l’estate non è il periodo adatto per farli, andrebbero somministrati a gennaio, febbraio o marzo o subito dopo Pasqua”. Oltre al fatto che la vaccinazione, per come è classificata oggi la malattia, è a discrezione, e a carico, dell’allevatore (circa 3,20 euro a capo): “Se io ho due allevamenti vicini e uno lo fa e uno no…”. C’è poi il discorso del benessere animale: inevitabilmente i vaccini potrebbero “sballare i valori” di controllo.
Anche per Coldiretti Umbria la situazione “desta preoccupazione” perché per un allevatore perdere capi è sia un fattore “economico che affettivo”. “Eravamo indenni da 11 anni – ci spiega Albano Agabiti presidenti dell’associazione – perché c’era il divieto di circolazione, appena è diventata malattia endemica, sono cominciati i contagi“. La situazione, insomma, è “di tensione”, ma per una valutazione sull’impatto complessivo “bisognerà aspettare fine anno”. Se una nota di merito c’è, va sicuramente agli allevatori che si sono attivati subito nonostante un approccio che, svela Agabiti, è “ostile al vaccino”. “Molti sono contrari perché intanto ha un costo per l’allevatore e poi porta via intere giornate di lavoro”. Da un punto di vista pratico la soluzione più veloce “è quella di dare il repellente” che ha una percentuale di successo “totale”. Poi “stiamo consigliando il vaccino” anche se “ci vogliono dei tempi tecnici”. Infine consigliamo anche “larvicidi” per non far “proliferare l’insetto vettore”.
Le quattro regioni maggiormente colpite si sono già mosse. In Umbria, dice Agabiti, la regione ha già deliberato “un milione di euro, trovando fondi per una legge del 2014″. Nelle Marche la regione ha promesso ristori e Coldiretti, dice Gardoni, “vigilerà affinché non ci siano ritardi perché va salvaguardata una filiera già messa a dura prova da crisi climatiche e rincari”. Anche in Abruzzo la regione si sta muovendo cercando di trovare la quadra e alcuni soldi sono stati già trovati, dice Pilati grazie alla “camera di commercio e ai fondi per le feste dei pastori”. Nel Lazio, infine, la giunta di Francesco Rocca ha messo in campo un intervento straordinario per ristorare fino al 90% del valore di mercato dei capi.
La situazione però, secondo Nunzio Marcelli, allevatore abruzzese di Adotta una pecora, poteva essere affrontata eccome con la prevenzione. “Anche nella pastorizia c’è la dimostrazione di come in Italia siano aumentate le differenze – denuncia al Fatto – Al nord, in Piemonte, Lombardia e Veneto, dopo i primi colpi, a ottobre, hanno subito messo in campo un piano vaccinale, al centro-sud no. Questo a danno di un settore già provato dalla mancanza di un piano strategico che ha visto la pastorizia arretrare negli ultimi 50 anni”. Secondo Marcelli questa epidemia è sintomo di una “negligenza“, insomma è mancato un controllo per arginare i casi fin da subito. C’è poi molta omertà da parte dell’allevatore, spiega, che, spaventato dai costi, spesso non denuncia un focolaio. “Io credo che almeno un 30/40% non ha denunciato il focolaio. Poi altri, che magari sono arrivati a fine carriera, non vedono continuità dell’azienda e quindi certificano che tutto il gregge è malato, li macellano e scompare l’azienda”. Una epidemia che potrebbe anche essere un’occasione di rilancio ma che, senza politiche sulla pastorizia, critica Marcelli rischia solo di “distruggere un settore che già sopravvive a malapena”.
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