La fondatrice di Young Care Italia: “Sono stata una giovanissime caregiver, ora lotto per loro”

  • Postato il 8 ottobre 2025
  • Cronaca
  • Di Il Fatto Quotidiano
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È stata una caregiver precoce: aveva pochi anni, infatti, quando – figlia unica senza papà – ha cominciato a sostenere la madre malata. Oggi Samia Mariani, 35 anni, insegnante ed educatrice, si occupa del tema, spinoso e doloroso, dei giovani caregiver attraverso Young Care Italia, la prima associazione dedicata a queste persone e di cui è presidente.

Prima di fondare l’associazione, però, ha studiato a lungo – a partire dal 2016 – il tema dei giovani costretti dalla vita ad assistere i genitori, contribuendo a una ricerca dottorale insieme ad altre ricercatrici, stendendo la definizione italiana di giovane caregiver e creando un test per rilevare i giovani in questa condizione all’interno delle scuole di Milano. “I primi studi sul tema in Italia sono stati fatti in Emilia Romagna, nel mondo è un fenomeno che viene studiato già dagli anni Novanta nel Regno Unito”, spiega. Nel 2022 nasce Young Care Italia, che oggi fa tantissime cose: ricerca scientifica, divulgazione, formazione e poi supporto psicologico ai ragazzi che contattano il centro. “Il nostro obiettivo è cercare di intercettare i caregiver più giovani, quelli che sono nel mezzo delle difficoltà e sono ancora piccoli. Molti caregiver più grandi ci contattano perché sono più capaci di auto-riconoscersi. Per questo è fondamentale formare gli insegnanti, i medici di base, gli infermieri, perché esercitino l’occhio quando vedono, magari, giovani ragazzi accompagnare i genitori o i nonni a visite mediche, per poi inviarli ai servizi o alle associazioni perché siano supportati. Ma tutta la società civile deve conoscere che esiste questo fenomeno, per nulla marginale: parliamo del 7% dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni, secondo una ricerca del 2018 che sicuramente va aggiornata con numeri in crescita, visto che la popolazione invecchia e soprattutto i figli si fanno sempre più tardi, ma la qualità di vita non migliora”.

Un tema che interessa poco la politica

Moltissimi ragazzi si trovano ad essere caregiver già all’università con genitori che hanno magari patologie oncologiche o neurodegenerative o cardiovascolari. Ci sono anche i cosiddetti “sibling” ovvero fratelli o sorelle di persone con disabilità permanenti. E poi ci sono le seconde generazioni, che oltre ad assistere i genitori devono magari fare da interpreti in svariate circostante, come durante le visite mediche. “Penso infine anche ai figli delle persone con disabilità sensoriale, come i figli dei sordi, noi lavoriamo molto con l’associazione che li rappresenta. In questo caso i figli fanno tantissimo, a partire dal rispondere al telefono”.

Come purtroppo spesso accade, l’associazione non ha finanziamenti, si autofinanzia. “Abbiamo volontari che ci supportano, avvocati che ci assistono gratuitamente per aspetti legali, medici anche che ci danno una mano su un fronte importante come quella della comprensione della malattia: a me ad esempio quando ero piccola nessuno ha spiegato scientificamente perché mia madre stava male e che cosa comportasse la malattia, se mi avessero accompagnato nel capire come gestirla, sarebbe stato più facile”.

Alla politica, purtroppo, commenta amaramente Samia, il tema interessa poco o nulla: “Già i giovani non sono rappresentati, perché sono poveri e non votano, a maggior ragione i giovani caregiver, che sono una minoranza nella minoranza. Abbiamo comunque partecipato alla stesura di alcune proposte di legge sui caregiver, ci avevano chiesto di capire come poter inserire qualcosa che aiutasse questi ragazzi e ragazze”.

Sostegno psicologico e riconoscimento del lavoro di cura

Cosa servirebbe, allora? Samia Mariani ha le idee chiare: “Basterebbe anzitutto allenare gli insegnanti a riconoscere il fenomeno, così da alleggerire questi ragazzi sul piano scolastico e aiutarli nel caso avessero difficoltà. Sarebbe importantissimo anche che il lavoro di cura fosse riconosciuto come lavoro, ad esempio per gli studenti universitari, e che magari impegnano tra le 19 alle 25 ore a settimana, specie le ragazze”. E poi bisognerebbe ovviamente curare le implicazioni psicologiche: il problema dei caregiver è anche quello, spiega la presidente, “di elaborare il lutto per una persona che ancora è viva. Bisogna ‘uccidere idealmente’ l’immagine di una persona sana, che ti accoglie con il pranzo pronto. Purtroppo essere un caregiver precoce significa dicevo essere orfano di genitori che sono vivi, è un cortocircuito emozionale che non sai come gestire; la malattia porta inoltre la morte nella mente di un adolescente che è nel pieno della vita e che la morte non sa neanche cosa sia”.

Un altro aspetto centrale per aiutare i caregiver precoci è quello dell’orientamento: “Molti di noi tendono ad andare verso professioni di cura perché pensano sia la loro missione e inclinazione, ma magari lavorando su di sé potrebbero scoprire altri desideri”. Importantissimo è anche, secondo chi si occupa di questi ragazzi, che possano esprimere quanto e come vogliono essere parte integrante della cura, perché molti vogliono essere partecipi, anche se non schiacciati”. E poi c’è la lotta con la burocrazia, i sussidi per le persone malate che non ci sono, le azioni di intervento neanche, l’aiuto nella ricerca del lavoro. Se parliamo poi di malattia psichiatrica, aggiunge Samia Mariani, “le cose peggiorano, c’è stigma e anche sospetto, si pensa che le persone si fingano malate per ricevere chissà che cosa dallo stato”.

Essere una giovane caregiver – e oggi una caregiver adulta – non è facile. “Per me è stato faticosissimo portare a termine gli studi superiori, ma alla fine sono riuscita a proseguire anche con l’università. Ho un carattere che oggi si direbbe resiliente, però ho incontrato nel mio cammino tante persone duramente colpite, spesso in preda a depressione. Noi cerchiamo di dare supporto affinché entrino nel circuito dell’assistenza, ed evitino il rischio di diventare NEET oppure persone che a loro volta hanno bisogno di aiuto”.

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Il Fatto Quotidiano

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