La liberazione di Giovanni Brusca prova che lo Stato è più forte della vendetta

  • Postato il 5 giugno 2025
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La liberazione di Giovanni Brusca non è solo una eclatante – per quanto attesa – notizia di cronaca giudiziaria. È la riapertura di ferite mai rimarginate. È lo scontro tra memoria e sentimento collettivo e il diritto. È la durissima prova a cui siamo, tutti e tutte noi, sottoposti e sottoposte. Testimoniare che lo Stato, le sue leggi e il suo ordinamento, può essere anche più forte dell’istintivo desiderio di vendetta. Ma resta una verità scomoda, insopportabile per molti: il debito che Brusca ha con la Sicilia, e l’Italia tutta, non si può ripagare. Neppure con 500 ergastoli, uno per ogni chilo di tritolo fatto detonare a Capaci.

Chi sia Giovanni Brusca, oggi 64enne, non si può riassumere solo in una stringata biografia mafiosa. Brusca è una delle più insopportabili e crudeli incarnazioni del potere di Cosa Nostra. Non solo un mero esecutore della volontà omicida dei Corleonesi, ma un protagonista di primissimo piano della stagione delle stragi. Fu lui ad azionare il telecomando che fece esplodere il tritolo sotto l’autostrada A29, all’altezza di Capaci nel 1992. Sempre lui era nel commando che fece saltare l’autobomba usata per uccidere Rocco Chinnici. Una carriera criminale che vanta innumerevoli omicidi, e innumerevoli non è parola usata a caso, visto che lo stesso Brusca non ricorda il numero esatto: “più di cento, meno di duecento” per usare le sue parole.

E poi l’orrore assoluto: l’ordine di uccidere Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo. Il bambino fu rapito, tenuto prigioniero per oltre due anni e poi strangolato. Il suo corpo, infine, sciolto nell’acido, per cancellarne ogni traccia. Un delitto aberrante reso ancora più carico di orrore nella ricostruzione fornita in udienza da Vincenzo Chiodo, esecutore del delitto.

Nel 1996, dopo l’arresto nel maggio dello stesso anno e a pochi mesi dall’omicidio del piccolo Di Matteo, Brusca inizia a collaborare con la giustizia. Non lo fa per pentimento morale, ma per strategia. Racconta, rivela, fa nomi, aiuta a decifrare i codici oscuri di Cosa Nostra. In cambio, ottiene uno sconto di pena. È il meccanismo della legislazione sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni Falcone stesso, consapevole che per abbattere la mafia bisognava scardinarne l’omertà dall’interno.

Senza uomini come Brusca, forse molti segreti di quegli anni sarebbero ancora sepolti. È una realtà amara, che fa male. Tanto male. Ma è la verità che dobbiamo accettare. La legge, per essere giusta, deve anche essere efficace. E in quel contesto, l’efficacia ha avuto un costo altissimo.

Brusca ha scontato 25 anni di carcere, ha ottenuto i benefici previsti ed è tornato in libertà sotto sorveglianza speciale. Non è un privilegio: è una conseguenza di una norma che lo Stato ha deciso di applicare, anche quando fa male. Ma la legge, per essere credibile, deve valere anche per chi ci ripugna. È questo il paradosso dell’essere giusti: non scegliere a chi applicare la giustizia, ma applicarla a tutti. Un principio, a ben pensarci, che è l’esatto opposto di uno dei pilastri mafiosi.

E tuttavia, c’è qualcosa che nessuna sentenza potrà mai chiudere. Per quanto Brusca abbia collaborato, per quanto abbia scontato anni in cella, per quanto oggi sia fuori dalle gerarchie mafiose, per quanta luce abbia portato su molti dei più sanguinosi fatti di mafia il debito nei confronti della comunità siciliana, della verità, della pietà umana, è e resterà incancellabile. Chi ha strappato un bambino alla vita con quella crudeltà, chi ha fatto esplodere autostrade e auto senza preoccuparsi delle vite sacrificate, chi ha ucciso e torturato senza neppure preoccuparsi di ricordare nomi e volti delle vittime non potrà mai restituire ciò che ha tolto.

Lo Stato lo ha scarcerato, ma la memoria no. La società no. Perché ci sono azioni che superano il perimetro della pena e della legge. Non per vendetta, ma per consapevolezza. Perché ricordare è un nostro dovere. Al pari di rispettare quanto previsto dalle norme che hanno, in maniera cosi importante, contribuito a tante vittorie contro Cosa Nostra.

La vera forza dello Stato si misura quando rinuncia alla vendetta, anche davanti al mostro. Giovanni Brusca è libero, ma non sarà mai innocente. La giustizia lo ha trattato come un uomo, non come un simbolo. E questa è la vittoria più difficile per chi nel 1992 chiedeva verità ed era stanco di contare funerali e morti ammazzati.

Liberare Brusca secondo la legge è stato giusto. Dimenticare ciò che ha fatto sarebbe imperdonabile. Che Brusca, detto “u verru” cioè il porco, possa adesso campare 150 anni, uno per ognuno dei morti che ha sulla coscienza. E che quei nomi e quei volti possano venirgli in mente ogni giorno. A ricordargli che si può essere liberi dalle sbarre di una galera, non da se stessi. E che alla fine abbiamo vinto noi, noi che abbiamo ben presenti i volti e i nomi delle sue vittime.

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Il Fatto Quotidiano

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