La pediatria dell’ospedale Umberto I è un’eccellenza sanitaria: nessun riarmo deve cancellarla
- Postato il 5 luglio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Prima, una febbre alta per quattro giorni che non scendeva, solo con un antibiotico datoci dalla guardia medica (e poi giudicato non utile dalla pediatra). Passano meno di due settimane e di nuovo la febbre. Che una mattina si è più alta del solito, è accompagnata dal dolore al collo e da un aspetto decisamente preoccupante. Così, sia pure certa di affrontare un calvario di ore e ore di attesa, decido di portare mio figlio di 15 anni al Pronto Soccorso pediatrico dell’ospedale Umberto I, a Roma.
Qui la sorpresa: mio figlio è stato preso in carico immediatamente, senza attese. Dopo i primi controlli, medici e infermieri (il personale era tantissimo e premuroso) gli fanno subito un prelievo spinale, per valutare una possibile meningite. Dopo di che lo ricoverano in reparto dove per tre giorni viene costantemente visitato dall’infettivologa e da altri specialisti, tra cui una pediatra neurologa e un’esperta di cefalee. Le visite sono lunghe, accurate. La ricostruzione dei fatti mi viene chiesta più volte e in maniera dettagliata, in modo da capire esattamente la sequenza degli eventi e curare meglio.
L’anamnesi è incredibilmente precisa: di mio figlio vogliono sapere tutto, gravidanza, peso alla nascita, sviluppo successive, tutte le malattie dei parenti fino ai nonni, viaggi. Nel frattempo vengono fatte terapie antibiotiche e antivirali tramite flebo. Le analisi del sangue sono talmente dettagliate da includere persino ricerca celiachia e ormoni tiroidei, chiesti dall’esperta in cefalee. Il ricovero dura appunto due notti e quasi tre giorni, l’infettivologa afferma che “meno di 48 ore non ha senso fare un ricovero”. Donna adulta e scrupolosa fino all’inverosimile, la sento anche dire a un collega se deve firmare anche lei alcune carte, “io voglio firmare, firmo tutto, non ho certo paura delle conseguenze legali”. Insomma, zero medicina difensiva, anche.
In quei tre giorni sono rimasta stupita dal modo eccellente in cui mio figlio, gratuitamente, è stato preso in carico e curato. Dalla dedizione di decine di medici, molti giovani, che lavorano senza clamore televisivo o mediatico.
Dal reparto ho visto anche il mondo, perché gli ospedali sono uno specchio della società incredibile, occorrerebbe frequentarli per capire i problemi reali delle persone: bambini con patologie croniche gravi, spesso residenti al sud, con genitori che neanche mangiavano e bevevano, 24 ore al giorno dedicati a loro, magari dopo un viaggio di dieci ore in macchina; ho visto un minore non accompagnato, in una stanza da solo e controllato e assistito da tre educatrici per coprire le 24 ore. Ho saputo che due stanze accanto alla nostra c’erano due bambine ferite gravi di Gaza. Tutti venivano curati, indistintamente e con estremo scrupolo.
Ho pensato ai tanti editoriali letti in questi giorni sul riarmo, alcuni dei quali sostengono che no, non c’è contrapposizione tra riarmo e ospedali perché la difesa renderà più sicuri gli ospedali stessi dagli attacchi cibernetici e dal furto dati. Ho provato vera amarezza a fronte di tanta stupidità, come se i pazienti con il viso semi-distrutto, arrivati da una zona di guerra, o a un minorenne solo, fuggito dal suo paese, o a genitori italiani con una bambina dalla malattie delle ossa fragili (era nella mia stanza, una patologia che fa sì che le ossa dei bambini si rompano di continuo) interessasse il furto di dati. E non il viso ricostruito, non le operazioni per inserire ferri nel femore sbriciolato.
Visto dall’ospedale, il dibattito sul riarmo è talmente surreale che viene da pensare che sia finto, non reale. Abbiamo bisogno disperato di più welfare, più sanità e più scuola (e pensioni e reddito antipovertà, sostegni alle famiglie e tanto altro). E se è vero che spesso la cattiva sanità non è frutto solo di mancanza di soldi (come il resto d’altronde), ma di cattiva organizzazione, per cui i reparti funzionano bene quando c’è una testa pensante che li organizza in maniera intelligente e efficiente, non c’è dubbio che i soldi servono. E se già è difficile con i soldi, figuriamoci senza.
La mia è stata un’esperienza agrodolce: da un lato, stupore e gratitudine per questa sacca di sanità funzionante in maniera eccellente e gratuita (non scontato, purtroppo, specie in una regione, come il Lazio, dove ormai sta prendendo il sopravvento la sanità privata, e non solo ambulatoriale); dall’altro, tristezza e inquietudine rispetto a ciò che sarà tolto in funzione del riarmo. Si vogliono tagliare i prelievi spinali per vedere se un ragazzo è affetto da meningite? L’assistenza sanitaria alle famiglie con patologie croniche gravissime, che devono continuamente operarsi? L’aiuto ai bambini che arrivano feriti e mutilati dalla guerra? Lo stipendio di medici e infermieri? L’attrezzature e le medicine? Le sale operatorie?
Giorgia Meloni continua a ripetere che non un euro sarà tolto dalle necessità degli italiani. Ma se la matematica non è un opinione, delle due l’una. O mente agli italiani, o mente all’Europa e a Trump. Speriamo sia vera la seconda. Anche perché, realisticamente, tagliare decine di miliardi ogni anno è oggettivamente impossibile, essendo già stato tagliato il tagliabile in questi ultimi decenni. Credo che nessun governo politico potrebbe uscire indenne da decisioni come quelle che il 5% del Pil in armi ci impone.
Ma potrebbe sempre, chissà, arrivare un governo tecnico, magari capeggiato-sponsorizzato da Leonardo e dalle aziende delle armi, per fare il lavoro sporco. E allora davvero non si potrà più essere neutrali. Bisognerà, bisogna già da ora, scendere in piazza in ogni modo per difendere le realtà che si curano dei nostri bisogni. Come il reparto pediatrico dell’Umberto I di Roma. Come tante altre eccellenze sanitarie sul territorio. Loro sì che sono la nostra difesa. Il resto è solo sterile retorica, incuria. E morte.
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