Le storie degli operatori di call center tra cassa integrazione, part time non richiesto e futuro incerto. “Ci sentiamo sotto ricatto”
- Postato il 3 giugno 2025
- Lavoro
- Di Il Fatto Quotidiano
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Quasi tutti hanno famiglia e figli, in alcuni casi sono plurilaureati e super qualificati ma di mestiere hanno scelto – o ci si sono ritrovati – di indossare cuffie e microfono per fare assistenza clienti e ora rischiano di perdere il lavoro. Sono gli operatori di call center, circa 40mila in Italia stando ai calcoli delle segreterie nazionali di Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil, minacciati da una crisi che dura da anni e che sta annientando i loro progetti di vita. “Ci sentiamo sotto ricatto – dicono a ilfattoquotidiano.it -, ma sappiamo di essere necessari, gli utenti ci richiedono e noi vogliamo lottare per tutelare la nostra professione”.
“Si fanno la guerra e paghiamo noi” – Chi aveva scommesso tutto su questo comparto è Francesco Foglia, 51 anni, attualmente lavora per Network contacts a Crotone ma ha 25 anni di esperienza alle spalle. Ha iniziato nei call center per pagarsi gli studi universitari in Ingegneria, ha pensato fosse un lavoretto sicuro per mantenersi e diventare indipendente, poi gli hanno proposto un contratto a tempo indeterminato nella società Abramo, oggi in fallimento, e lui ha accettato rinunciando alla laurea. “Ho fatto parte per 15 anni dello staff da responsabile”, racconta a ilfattoquotidiano.it. Quando è arrivata la crisi di Abramo ha scelto il demansionamento per mantenere il posto di lavoro ed è diventato operatore di call center. “Questo settore – racconta – ci ha dato tanto: ha permesso a colleghi come me di farsi una famiglia, di mandare i figli a scuola. Non sputiamo nel piatto in cui mangiamo, ma ora stanno battendo sotto i piedi la nostra dignità“. Foglia teme il licenziamento perché Poste italiane ha tagliato la commessa alla società per cui effettua il servizio per ragioni ancora da chiarire. “Poste italiane e Network contact si stanno facendo guerra tra loro – dice -, e chi ne fa le spese siamo noi”.
“Il lavoro c’è ma non si sa a quali condizioni” – In Network ma a Molfetta, in Puglia, lavora come operatrice anche Anna Lacedonia, che non rischia il posto ma ha dovuto accettare un part-time involontario per salvare i colleghi. Allo scopo di evitare tagli negli anni scorsi, nel 2019 gli impiegati hanno addirittura detto di sì a un accordo difensivo triennale con riduzione del 30% della tredicesima, congelamento della garanzia retributiva e obbligo di due ore di lavoro extra a settimana, pagate ognuna con un buono pasto di 2,50 euro. “C’è sempre questa spada di Damocle che pende sulle nostre teste – racconta Lacedonia a ilfattoquotidiano.it -. Il lavoro c’è ma non si sa a quali condizioni. Guadagno 1.150 euro netti, ci riesco a vivere, ma ogni spesa, anche quelle mediche, deve essere programmata”. Dopo un periodo di part-time a quattro ore, adesso Lacedonia ha sei ore di lavoro senza possibilità di aumentarle: “Si tira avanti a fatica”, spiega.
“Da maggio in contratto di solidarietà” – Con 800 euro al mese e senza certezze sul futuro vive invece Samantha Iannone, 47 anni, laureata e con due master, madre di due figli di 21 e 13 anni. Lavora per Konecta a Livorno su un’unica commessa che serve a rispondere al 187 di Tim, compagnia che però ha deciso di tagliare l’assistenza clienti. “Nel nostro sito siamo 86 dipendenti, quasi per la totalità donne dai 45 anni in su – spiega -, alcune parlano quattro lingue. Da inizio maggio siamo in contratto di solidarietà e da giugno non sappiamo cosa succederà”. Tra le opzioni sul tavolo c’è quella di un ricollocamento interno su commesse per i comparti energetico e bancario, che ancora non stanno riducendo drasticamente il servizio. Il prezzo da pagare, però, sarebbe doversi trasferire a Firenze, a cento chilometri da casa, per lo stesso stipendio, e senza garanzia che i tagli non ci siano in futuro. “Ci sentiamo sotto scacco – spiega Iannone -, personalmente non credo più alle favole per cui bisogna andare ovunque ci sia lavoro: questo settore mi ha consentito di essere quella che sono e voglio lottare per tutelarlo in un territorio che oggi è depresso dal punto di vista industriale”.
“Dall’1 agosto saremo disoccupati” – In una zona senza grandi alternative lavora anche Giancarlo Mancuso, che con la moglie, collega anche lei, è in cassa integrazione a zero ore per Almaviva a Palermo, senza nessuna prospettiva occupazionale. La cassa integrazione, scattata a gennaio, per loro finirà a luglio e le parti si sono impegnate a non chiederne la proroga, ma a fine maggio non si sa ancora quali siano i progetti percorribili: “Per noi è un dramma – dice a ilfattoquotidiano.it -, stiamo male perché siamo sempre più consapevoli che dall’1 agosto saremo disoccupati”. I lavoratori di Palermo erano stati assunti nel periodo della pandemia, lavorando in condizioni critiche e con ruoli giudicati indispensabili. Ora si sentono traditi anche dallo Stato: “Abbiamo gestito il servizio 1500 durante il Covid-19 – racconta Mancuso -, abbiamo preso i complimenti dal ministero della Salute, e il ringraziamento è questo: ci hanno scaricati dopo averci fatto gli elogi”.
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