L’overtourism secondo me non si può arginare: l’unica cosa da fare è un passo indietro
- Postato il 27 agosto 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
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Come ogni estate, ecco il tema del turismo di massa o overtourism, con da un lato i più che gongolano per le strutture ricettive piene e, dall’altro, i pochi che si lamentano per l’eccesso dei flussi. Secondo l’Unwto, l’Organizzazione Mondiale del Turismo, nel solo anno corrente, il turismo internazionale crescerà di una cifra mostruosa, tra il 3 ed il 5%.
Ed è appena il caso di sottolineare l’impatto ambientale che già oggi il turismo ha: basti pensare alle sole emissioni di CO₂ cui esso contribuisce con un 8,8%; al consumo di suolo causato da seconde case, resort, strutture e infrastrutture turistiche; alla privatizzazione del mare ad opera dei porti turistici; al consumo di risorse dovute a determinate pratiche sportive, come lo sci di pista (elettricità, acqua). Il tutto per giungere alla conclusione che il turismo oggi è nel suo complesso l’industria più impattante al mondo.
Questo senza contare le trasformazioni culturali che il turismo comporta che vanno dalla stupidissima locuzione “vi sentirete come a casa vostra”; alla omogeneizzazione che avviene nelle popolazioni interessate, pur di soddisfare le esigenze vere o presunte dei turisti; alle trasformazioni delle strutture sociali delle località divenute turistiche. Ma di tutto questo non si tiene alcun conto e, come per tutte le attività umane della nostra epoca, si tiene in considerazione solo l’aumento della ricchezza che il flusso turistico arreca e il numero di lavoratori che operano nel comparto turistico.
E, come se tutto ciò non bastasse, ecco la corsa delle varie località ad ottenere il riconoscimento Unesco oppure le grandi manifestazioni, sportive (Cortina insegna) e non.
Ormai il turismo è un cancro e si va dagli ingorghi di Castelluccio per vedere la fioritura, alla fila per la funivia del Seceda, dalle Tre Cime di Lavaredo al lago di Braies. Ed assomiglia ad un palliativo piuttosto che ad una soluzione l’adozione di mezzi di trasporto pubblici, come le navette in zone di montagna, che comunque non influiscono sul dato di base: il numero dei frequentatori, il peso antropico. Ormai il turismo assomiglia sempre più ad un iperoggetto (per citare Timothy Morton) di cui ci sfuggono le dimensioni reali e le conseguenze devastanti.
E sarebbe anche interessante capire perché, cosa spinge una persona a muoversi, a partecipare a questa sorta di rito collettivo, ma qui esco evidentemente dal seminato. Solita, scontatissima domanda: che fare? In un recente saggio Turismo insostenibile. Per una nuova ecologia degli spazi e del tempo libero, il giornalista Alex Giuzio – escludendo che il numero chiuso possa essere una soluzione – ipotizza alcune piccole strategie da adottare localmente per cercare di arginare il peso del fenomeno.
Personalmente, mi permetto di ritenere che il turismo non si possa arginare e come in ogni altra attività umana tenderà ad andare sempre oltre i limiti (chi abbia tempo e voglia si studi l’hybris greca). E come per altre problematiche in cui siamo letteralmente immersi, io consiglio di rinunciare anche solo a pensare a possibili, irrealizzabili soluzioni. Quello che possiamo noi tutti fare è ovviamente non partecipare al rito collettivo e, se conosciamo un luogo ancora miracolosamente non infettato, guardarci bene dal pubblicizzarlo. Tutto qui.
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