Maestre e messaggere al Museo Novecento. Firenze riscopre il lavoro di Marion Baruch
- Postato il 27 maggio 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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È ancora una volta un progetto diffuso per la città di Firenze, quello che il Museo Novecento mette in scena per Marion Baruch, dislocando le sue opere tra la casa madre, il Polimoda e la Manifattura Tabacchi, in una architettura curata da Sergio Risaliti e Stefania Rispoli. Non è la prima volta che l’istituzione pone il focus su grandi donne dell’arte. Baruch a 96 anni è un’artista di una freschezza, e allo stesso tempo solidità, impressionanti. “Nata tra le due guerre, nel 1929, a Timisoara, Romania, non più Temesvàr, Ungheria”, riporta l’apparato didattico del museo. “Sono nata molto vecchia per ringiovanire vivendo. Ora posso dire che sono giovane”. E mai frase fu più calzante, per una maestra che merita una opportuna indagine, ma anche approfondita contestualizzazione.

L’opera di Marion Baruch a Firenze
Spaziando dalle arti visive al design, Baruch, una vita divisa tra la terra natia, l’Italia, la Francia e Israele fa del tessile la trama poetica dei suoi lavori che sono tuttavia politici e sociali, con la donna al centro di una critica che attraversa la storia, la questione della migrazione e le maglie del patriarcato. Non si può non pensare alle stoffe utilizzate da Clemen Parrocchetti o da Louis Bourgeois, figlia di una famiglia di produttori di arazzi, già ospitata dal museo fiorentino in una bella mostra che guardava al suo ultimo periodo. Né non inserire il lavoro di Baruch nel dibattito più ampio delle correnti femminili e femministe a rivendicare per la donna un ruolo creativo, autoriale, sociale e politico. L’artista la libertà se la prende tutta, non relegando la propria azione a una disciplina o a un genere, e permettendosi di cambiare strada ogni qual volta è necessario.
Le collaborazioni di Marion Baruch
La mostra, che spazia dalle prime opere create nella metà degli Anni Sessanta, fino ai giorni nostri, racconta le collaborazioni con la importante galleria di Luciano Inga Pin a Milano, spazio di sperimentazione e fucina raffinata di talenti nel nome del suo fondatore, e con Dino Gavina (Ron Ron) o ancora AG Franzon (in mostra gli iconici Abito Contenitore, prodotti tra il 1971 e il 2023), inoltre la nascita di Name Diffusion, azienda finzionale, ma concretamente esistente e registrata a Varese, nata nel 1990, che mette al centro nella scelta di questo nome o logo commerciale, il tema del linguaggio fondamentale in Baruch, ma anche il discorso sull’autorialità, sulla identità e sulla presenza femminile. Oggetti che diventano performativi, che mettono il corpo in uno spazio d’azione, tessuti che sfilacciandosi richiamano la seduttività delle forme, ma anche le quinte di un teatro, o la storia dell’arte (Matisse Brancusi, Theatre Melotti, Boetti). Vuoti e pieni che si riallacciano creando il movimento, diventano ritratto (La Galeriste), visioni aeree (Innesti Di Sogno Su Frammenti) o strumenti musicali (Arpa).












La mostra Messaggere
Corpo e spazio abitano anche le opere che percorrono la mostra, a cura di Eva Francioli e Stefania Rispoli, Messaggere, con le opere di cinque artiste Chiara Baima Poma, Fatima Bianchi, Lucia Cantò, Parul Thacker e Tuli Mekondjo dislocate al piano terra del Museo. Qui le artiste sono di una generazione completamente diversa. La più giovane è nata nel 1995, la più “anziana” nel 1973, ma proseguono il discorso come in un passaggio di testimone, concependo l’arte come uno spazio rituale, una dimensione in cui affrontare e probabilmente anche esorcizzare i mali e gli avvenimenti del presente. Si vede dai luoghi conchiusi creati in cui circoscrivere l’esperienza dell’opera, dalle immagini che richiamano a impianti antichi con forme del presente, dai saperi millenari evocati dagli ex voto.
Anche qui si spazia tra generi e discipline. C’è la magia realista della pittura di Chiara Baima Poma, la ceramica e la scultura che affondano le radici nelle tradizioni antiche e muliebri della storia di Lucia Cantò, anche protagonista di una recente residenza a Firenze. Ci sono Le dissidenti del mediometraggio di Fatima Bianchi, e il delicato lavoro sulla memoria collettiva di Tuli Mekondjo. Chiudono il cerchio le architetture fragili di Thacker, che andando ad occupare anche gli spazi dell’ex cappella del Museo con i suoi Portali, apre una dimensione di passaggio tra terra e cielo, in uno spazio laico, seppur spirituale. Dandosi tutte idealmente la mano, in un dialogo costante, con le opere di Baruch.
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