“Mi sento fallita perché non ho cibo per i miei figli”: la fame a Gaza nelle parole di una madre

  • Postato il 25 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Amnesty International ha reso nota una serie di sconvolgenti testimonianze di civili palestinesi, i cui racconti hanno rafforzato ulteriormente le conclusioni cui era già giunta l’organizzazione per i diritti umani: la combinazione mortale tra fame e malattie non è uno sfortunato effetto secondario delle operazioni militari ma è il risultato atteso di piani e politiche che Israele ha ideato e attuato, negli ultimi 22 mesi, per infliggere intenzionalmente alla popolazione palestinese della Striscia di Gaza condizioni di vita intese a provocare la loro distruzione fisica, parte integrante del genocidio in corso.

Il 29 luglio, l’Iniziativa per la classificazione integrata delle fasi della sicurezza alimentare ha diffuso un’allerta secondo la quale, nella maggior parte della Striscia di Gaza, il consumo di cibo era sceso a livelli così bassi da aver raggiunto la soglia della carestia e che il peggiore degli scenari possibili era già in atto a causa del continuo aumento del numero di persone, tra le quali bambine e bambini, morte di fame.

Alle stesse conclusioni è poi giunto il Nutrition Cluster, secondo il quale a luglio erano stati accertati quasi 13.000 casi di ammissione ospedaliera per malnutrizione acuta, il numero più alto su base mensile dall’ottobre 2023, almeno 2800 dei quali (il 22 per cento del totale) per grave malnutrizione acuta. Altri dati e, soprattutto, le testimonianze sono raccolte in un lungo documento, la cui traduzione integrale è disponibile qui.

In questo post voglio riportare quelle di una madre in allattamento e di una donna in gravidanza. L’impatto cumulativo, su di loro, delle politiche israeliane di riduzione alla fame di massa, dei multipli sfollamenti forzati e delle limitazioni all’accesso agli aiuti salvavita è particolarmente devastante. Delle 747 di loro che Save the Children ha visitato nella prima metà di luglio nelle sue cliniche, 323 (il 43 per cento) erano malnutrite.

S. (che ha chiesto di essere citata solo con l’iniziale del suo nome), un’infermiera sfollata da Jabalia al campo di al-Taqwa, nel quartiere di Sheikh Radwan di Gaza City, ha raccontato la sua lotta quotidiana per prendersi cura dei suoi figli, un bambino di due anni e una bambina di sette mesi. Ha dovuto scegliere tra lo sfollamento e la morte sotto le bombe israeliane e ha deciso di essere sfollata per salvarli.

La fame ha iniziato a farsi sentire ad aprile, costringendola a rinunciare al cibo per fornirne misere porzioni ai figli. Alla fine del mese il latte al seno si era notevolmente ridotto e l’assenza di tiralatte e l’estrema scarsità di altro materiale per la maternità l’hanno costretta a provare per ore e ore, causandole dolore fisico e psicologico, ma “niente, il latte non usciva”.

Il pasto quotidiano, quando disponibile, consisteva in un piatto a famiglia di lenticchie e melanzane, che S. cedeva ai suoi figli. Questi crollavano a dormire “piangendo per la fame”. Quel poco di latte in polvere disponibile nella Striscia di Gaza aveva un prezzo irraggiungibile, 270 shekel (quasi 70 euro) per una confezione da tre giorni, e comunque si trovava a malapena.

Quando la cucina comunitaria del campo, l’unica fonte di cibo, ha sospeso le forniture per tre giorni consecutivi, S. ha potuto dare ai suoi due figli solo acqua. Suo marito era rimasto ferito mentre cercava aiuti nei pressi del valico di Zikim e lei lo ha scongiurato di non riprovarci più. Il figlio, indebolito dalla fame, camminava e cadeva: “Sento di aver fallito come madre: la fame dei miei figli mi fa sentire una cattiva madre”.

La lotta per procurarsi beni essenziali va oltre il cibo. La totale mancanza di assorbenti ha costretto S. a tagliare i suoi vestiti e a usarli, senza poterli lavare dopo l’utilizzo a causa della mancanza di acqua pulita, a sua volta causata dalla distruzione o dai gravi danneggiamenti dei sistemi idrici e igienici nella Striscia di Gaza. La tenda in cui tuttora vive col marito e i due figli è infestata da topi, zanzare e scarafaggi. La neonata di sette mesi ha sviluppato un’infezione cutanea da batteri, impossibile da curare per la mancanza di antibiotici e pomate.

Hadeel, 28 anni, madre di due figli e incinta da quattro mesi, ha descritto la paura provata quando sentiva a malapena i movimenti o il battito del cuore del feto e il senso di colpa nell’essere rimasta incinta sapendo che non avrebbe potuto nutrire se stessa: “Temo un aborto ma penso anche al mio bambino: mi viene il panico a pensare alle conseguenze su di lui della mia fame, quanto peserà, se avrà malattie congenite, persino se nascerà in salute, che vita lo aspetterà tra bombe, sfollamenti e tende…”

Hadeel trema al pensiero di partorire in queste condizioni, ricordando le cure prenatali, le vitamine e i test medici messi a disposizione durante le due precedenti gravidanze dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il lavoro e il soccorso dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ora del tutto mancanti. I suoi due figli chiedono costantemente cibo, un luogo per pregare e una scuola.

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Il Fatto Quotidiano

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