Michelangelo, se il genio fa tappa a Bologna

  • Postato il 8 dicembre 2025
  • Di Panorama
  • 1 Visualizzazioni

Messer Giovan Francesco Aldovrandi, uno de’ sedici del governo, lo trattenne appresso di sé più di un anno. Et un dì, l’Aldovrando, condottolo a vedere l’arca di San Domenico fatta, come si disse, da Giovan Pisano e poi da maestro Niccolò dall’Arca, scultori vecchi, et mancandoci un Angelo che teneva un candelliere, et un San Petronio, figure d’un braccio circa, gli dimandò se gli bastasse l’animo: rispose di sì. Così, fattogli dare il marmo, gli condusse, che son le migliori figure che vi sieno…». Così Giorgio Vasari ricorda il primo soggiorno a Bologna del suo idolo, Michelangelo, cominciato nel 1494 quando l’allora ventenne preferì distanziarsi dai protettori medicei che un domenicano ferrarese, Gerolamo Savonarola, stava scalzando dietro l’accusa di paganesimo sacrilego. È a Bologna che Michelangelo viene impegnato nella prima importante opera pubblica della sua carriera, il completamento della leggendaria Arca di San Domenico, nella chiesa omonima, che dopo l’intervento duecentesco di Nicola Pisano, non Giovanni come afferma Vasari, aveva trovato in Niccolò d’Antonio de Apulia, morto qualche mese prima quando da tutti veniva già chiamato «dell’Arc», l’artefice responsabile della parte superiore della tomba. A Bologna, Michelangelo sarebbe tornato nel 1506, fuggendo stavolta da Roma dove era entrato nelle grazie di Giulio II. Proprio le assenze prolungate del pontefice, più a suo agio nei campi di battaglia che in Vaticano, avevano fatto sentire il pusillanime Buonarroti senza difese contro gli attacchi della concorrenza. Giulio II lo fa rientrare nei ranghi, incaricandolo di forgiare a Bologna, che il papa occupa personalmente per più di un anno, un bronzo in suo onore, simbolico della sottomissione imposta alla città. 

Alle trasferte di Michelangelo a Bologna è dedicata una mostra a Palazzo Fava, a cura di Cristina Acidini e Alessandro Cecchi (fino al prossimo 15 febbraio). L’iniziale Madonna della Scala (c.1490), realizzata quando Michelangelo, avvalendosi di una formazione in bilico fra Domenico Ghirlandaio e forse Benedetto da Maiano nel mentre che fa ingresso nel cosiddetto “Giardino di San Marco” promosso da Lorenzo il Magnifico, testimonia di quale fosse la sua cultura artistica prima del 1495, concentrata sul modello dello stacciato donatelliano e sulla resa dello spazio prospettico contratto, ma con caratteri di originalità nell’interpretazione matronale di Maria, come se il mito greco-romano fosse da identificare col trionfo di una corporeità esuberante. Nella Bologna governata dai Bentivoglio, Michelangelo si confronta con i «vecchi scultori» che, differentemente da come sembra trattarli Vasari, deve considerare padri di una modernità nella quale si sono finalmente gettate le basi per tenere il passo con l’antico. In Niccolò dell’Arca vede presumibilmente un continuatore padano di Donatello, in particolare quello senese, così come suggerisce la speculare vicinanza della Madonna del Perdono (c.1458) con quella niccoliana nella facciata del bolognese Palazzo d’Accursio (1478). Per l’Arca, Michelangelo realizza effettivamente un angelo reggicandela che rispetto a quello in controparte di Niccolò, quasi nostalgico del gotico francese nell’eleganza asessuata delle forme, ci tiene a mostrarsi quanto mai maschio e figlio di una romanità conclamata. Quando però, sempre nell’Arca, deve impostare un San Procolo, frantumato e ricostituito a metà Cinquecento, irrobustisce di vigori fiorentini l’impianto del San Francesco d’Assisi di Niccolò, forse in virtù anche di quanto aveva visto a Venezia e magari anche a Padova – monumenti equestri a Bartolomeo Colleoni e Gattamelata – prima di recarsi a Bologna. Nel riprendere invece un San Petronio, lo si vede rispettare panneggi artificiosamente sbalzati così come appaiono nei dipinti di Cosmé Tura, omaggiando un Quattrocento emiliano, senza soverchie distinzioni fra Bologna e Ferrara, che ai suoi occhi meritava evidentemente dovuta considerazione. Il San Petronio dell’Arca rivela anche l’altro «vecchio scultore» che Michelangelo studia a Bologna, il senese Jacopo della Quercia, presente in mostra con una probabile Madonna e Bambino in terracotta dipinta (c.1430), che di sé stesso aveva lasciato il meglio nella basilica di San Petronio, in particolare nei rilievi quadrangolari della Porta Magna che si dimostreranno indispensabili nell’ispirare le storie bibliche della Cappella Sistina, sopra i quali il Giulio II benedicente a cui si è accennato sarebbe stato collocato nel 1508. C’era, certo, anche un altro Niccolò dell’Arca, non tanto quello delle Aquile a San Giovanni in Monte e Palazzo d’Accursio, la seconda delle quali potrebbe avere avuto un prototipo in un’opera nella mia collezione, con le quali, secondo una certa diceria, Buonarroti avrebbe rivaleggiato, ma quello dello strepitoso Compianto a Santa Maria della Vita, troppo espressionistico e medievalmente plateale per rientrare nel gusto del Michelangelo anche dopo il soggiorno del 1495-96, quello, per intenderci, della Pietà vaticana, dove tutto suonerebbe all’inverso del capolavoro felsineo. Ma sarebbe difficile concepire, nella Pietà, l’ovato austero e impassibile di Maria, già dimentico di fattezze matronali, senza passare per il Donatello senese dei tuttotondo in Battistero, lo stesso che sul posto vede di porsi in relazione con Jacopo della Quercia e che Niccolò, con la Madonna di Piazza, dimostra di sapere tradurre in linguaggio locale. Il cerchio si chiude comunque.                                                                                                                                        

Malgrado le gratificazioni ricevute (rivela un altro biografo cinquecentesco, Ascanio Condivi, che fosse apprezzato da Aldovrandi anche come lettore dei grandi scrittori toscani, Dante soprattutto), Michelangelo lasciò senza troppi indugi Bologna che non doveva ritenere, con buona pace dei vari Ercole de’ Roberti, Francesco del Cossa, Francesco Francia e Lorenzo Costa, adeguata alle sue ambizioni artistiche. Quando vi ritorna lo fa da sodale del nemico che ha cacciato i garanti dell’indipendenza cittadina, quei Bentivoglio da cui era stato favorevolmente accolto dieci anni prima. Il clima attorno a lui non poteva essere dei più favorevoli, cosa che lo porta a dedicarsi strenuamente al lavoro, dato che mai prima di allora aveva dovuto ideare un’opera da fusione alta quasi quattro metri. Del risultato ottenuto possiamo farci solo un’idea attraverso il Gregorio XIII di Alessandro Menganti (1580), anch’esso sulla facciata di Palazzo d’Accursio, se è vero che la sua posa imperiosa riprende quella del Giulio II sopra la Porta Magna, distrutto nel 1511 in seguito al ritorno dei Bentivoglio, i cui frammenti servirono agli Este per ottenerne degli armamenti. Non c’entra niente con i soggiorni bolognesi, ma viene comunque presentato in mostra uno schizzo preparatorio per la travagliata tomba romana di Giulio II, proveniente da Casa Buonarroti a Firenze (c.1516): un’invenzione fulminante in anticipo di tre secoli almeno, col cadavere nudo del papa, sbarbato e cadente nel rilassamento del ventre, che viene tenuto da un angelo troppo minuto per sorreggerlo. Lasciato libero di dare immagine solo ai suoi pensieri, il genio era ancora più grande di quanto poi dimostrava con le sue opere più celebrate. 

Autore
Panorama

Potrebbero anche piacerti