Migranti, la geografia della morte disegnata dagli accordi Ue. Che spingono i flussi verso la rotta del Mediterraneo centrale
- Postato il 30 giugno 2025
- Politica
- Di Il Fatto Quotidiano
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Uno studio rivela come le politiche migratorie europee, in particolare l’accordo del 2016 tra l’Ue e la Turchia, abbiano contribuito a un aumento dei decessi nel Mediterraneo, spingendo i flussi migratori su rotte più pericolose e aggravando la vulnerabilità dei migranti a torture e violenze sistematiche, come quelle raccontate nei recenti report si Sos Humanity e Medici Senza Frontiere.
La ricerca pubblicata sulla rivista Humanities and Social Sciences Communications dalla Scuola Imt Alti Studi Lucca, condotta da Massimo Riccaboni e Irene Tafani, indica che l’accordo UE-Turchia non ha ridotto gli arrivi irregolari. Al contrario ha spinto i flussi verso la rotta più mortale, quella del Mediterraneo centrale. In base ai dati ufficiali di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, i ricercatori hanno calcolato che tra aprile e dicembre 2016 circa duemila migranti che avrebbero utilizzato la rotta del Mediterraneo orientale sono stati deviati verso il Mediterraneo centrale, portando a un aumento netto dei decessi che la ricerca attribuisce direttamente all’accordo, dopo il quale il tasso di mortalità lungo la rotta del Mediterraneo centrale è quasi raddoppiato. Secondo gli autori, senza un coordinamento più ampio gli accordi bilaterali possono semplicemente spostare i flussi. “I decisori politici dovrebbero resistere alla tentazione di celebrare il calo degli arrivi in Grecia senza riconoscere che queste persone non hanno rinunciato alla migrazione. Stanno semplicemente trovando alternative più rischiose nelle acque libiche”, sono le parole di Riccaboni.
Gli ultimi dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), aggiornati al 21 giugno, riportano che almeno 255 persone sono morte e 284 risultano disperse sulla rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno. Ma non solo di questo si tratta. Mentre la Grecia annuncia di voler collaborare coi libici per arginare le partenze dei migranti e l’Ue ha appena rinnovato per altri due anni e 52 milioni di euro il mandato della ‘Missione europea di assistenza alla gestione integrata delle frontiere in Libia’ (Eubam Libia), arrivano a 11.129 i migranti intercettati in mare e riportati indietro dalla cosiddetta guardia costiera libica: 9.589 uomini, 1.026 donne, 369 minori e 145 con dati di genere sconosciuti. Nonostante le sentenze, anche dell’Italia, abbiano definitivamente delegittimato il ruolo delle vedette libiche, dichiarando che un’operazione di soccorso in mare non possa concludersi in un luogo dove le persone rischiano la vita, i recenti scontri e l’instabilità del Governo di unità nazionale tripolino hanno solo rilanciato la convinzione degli Stati Ue a rafforzare accordi e siglarne di nuovi. Con Tripoli, Bengasi, o chiunque si imponga come interlocutore nella regione.
Che nel Mediterraneo centrale si muoia ben prima di aver visto il mare lo ricordano, ancora una volta, i rapporti di organizzazioni come Medici Senza Frontiere (“Disumani”) e Sos Humanity (“Borders of (In)humanity”), che dettagliano le violenze sistematiche subite dai migranti, in particolare in Libia e Tunisia. Secondo Sos Humanity, le testimonianze raccolte da 64 sopravvissuti a bordo della nave Humanity 1 tra ottobre 2022 e agosto 2024 rivelano le conseguenze delle politiche europee che affidano il controllo delle frontiere a paesi terzi. In Libia, i sopravvissuti hanno quasi universalmente denunciato detenzioni arbitrarie in condizioni disumane: fame, mancanza di cure mediche e esecuzioni sommarie. Molti sono stati venduti come schiavi, anche agli stessi trafficanti di esseri umani, anche attraverso il confine tunisino. “Quella notte, nella prigione di Ghout al-Shaal, hanno chiesto 1.500 dollari a ciascuno di noi, ma nessuno ha pagato. Non riuscivamo a capire se fossimo stati venduti o meno”, racconta una testimonianza. “La mattina dopo le guardie ci hanno venduto alla milizia responsabile della prigione di Bir al-Ghanam, dove l’importo richiesto è salito a 2.500 dollari”. Ancora: “Avevamo un piatto di pasta per una dozzina di persone. Tutti avevano fame, molta fame. Dovevamo mangiare lentamente… C’erano persone che morivano in prigione. Morivano di fame, di malattia, morivano marcendo”.
Nemmeno i minori vengono risparmiati: “I libici hanno preso il mio bambino e l’hanno gettato a terra. Ho urlato e pianto e quando l’ho ripreso, la sua faccia era coperta di sangue”. Immancabili le violenze sessuali: “Molte donne, molte ragazze, le rapiscono e fanno tutto quello che vogliono. Molte hanno gravidanze indesiderate e sviluppano problemi mentali”. Una donna incinta ha raccontato di essere stata portata a Tripoli: “Mi hanno drogata, così dormivo sempre. Queste droghe colpiscono anche il bambino, ed è come avere un aborto… La seconda volta che sono stata imprigionata, avevo già il mio bambino. Ho chiesto acqua per lui, tante volte, ma non mi hanno dato nulla. Mi hanno solo picchiato e violentato. Mi hanno eiaculato addosso mentre tenevo in braccio il mio bambino”. Molte donne raccontano la riduzione in schiavitù: “Ho pagato un trafficante per lasciare il Mali, per proteggere mia figlia (dalle mutilazioni genitali)… in Libia mi ha venduta a un altro uomo: sono stata costretta a vivere e lavorare per lui. Mi violentava continuamente”.
Anche in Tunisia, Paese col quale l’Ue ha recentemente siglato un memorandum, la situazione dei diritti umani è peggiorata. I sopravvissuti riferiscono di cure mediche negate, sfruttamento finanziario, riduzione in schiavitù e discriminazioni sistematiche. “Anche quando vai al negozio i tunisini fanno finta di chiacchierare con i loro fratelli o sorelle, non ti guardano, arriva un altro tunisino e viene servito, e tu sei ignorato”. C’è chi viene abbandonato nel deserto, dove i migranti vengono portati forzatamente, al confine con la Libia o l’Algeria, a volte morendo. Un rifugiato dal Sudan: “37 donne che sono state violentate lì”. Medici senza frontiere riferisce che delle 40 pazienti assistite tra il 2023 e il 2025, l’80% ha raccontato di aver subito uno o più episodi di violenza sessuale. Alcuni subiscono la “falanga”, forma di tortura che consiste nell’infliggere traumi ai piedi. “In Bangladesh mi sono indebitato per pagarmi delle cure mediche… Quando sono arrivato in Libia sono stato segregato per un mese dai trafficanti, mi hanno torturato continuamente. Mi picchiavano su tutto il corpo, mi hanno colpito continuamente sotto i piedi per ottenere un riscatto dalla mia famiglia”.
Poi, il mare. Le barche sovraffollate e non idonee alla traversata. Prive di cibo, acqua ed equipaggiamento di sicurezza. Molti hanno assistito all’affogamento dei loro compagni di viaggio. I pattugliatori delle guardie costiere libica e tunisina sono direttamente coinvolti in pull-back violenti: pestaggi, spari, violenze sessuali, affondamenti intenzionali di imbarcazioni e persone lasciate annegare. “Tre giovani uomini si sono gettati in mare a causa delle gravi percosse subite. La guardia costiera libica li ha lasciati morire davanti ai nostri occhi, maledicendoli mentre annegavano: “E’ più facile per noi e per loro”, si dicevano l’un l’altro”. Come ormai raccontano i video girati dagli equipaggi umanitari, minacciati a loro volta, i libici non hanno remore ad aprire il fuoco. Episodi che interrogano direttamente le autorità europee, a tutti gli effetti committenti dell’attività in mare di libici e tunisini, accusate di facilitare deliberatamente le intercettazioni in mare e i conseguenti respingimenti.
L’eredità è nei corpi di chi è riuscito a raggiungere altre sponde. Msf gestisce a Palermo un progetto per l’assistenza e la riabilitazione delle persone sopravvissute a torture e violenze, in collaborazione con l’Università e il Policlinico Paolo Giaccone. Tra le persone assistite dal servizio, il 67 per cento presenta sintomi di stress post-traumatico associato a tratti ansiosi e depressivi, presumibilmente riconducibili a traumi e violenze subite. Molti riportano dolore cronico, esiti di fratture, disturbi digestivi e neurologici. I sintomi psicologici possono essere invalidanti, causando pensieri intrusivi e ricordi traumatici, con conseguente isolamento e sfiducia. Come spiegato da una psicologa di Msf, il percorso terapeutico mira a trasformare i flashback e i pensieri intrusivi in ricordi, creando uno spazio sicuro per la persona sopravvissuta alla tortura. Ma la condizione giuridica dei migranti, sempre più precaria in Italia come nel resto d’Europa, aggrava ulteriormente la sofferenza, ostacolando l’accesso ai servizi essenziali e la stabilità sociale ed economica che resta un miraggio anche per la maggioranza di coloro che ottengono la protezione internazionale.
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