Nathalie Achard: “Finché considero l’altro come un nemico, non potrò convincerlo a cambiare il mondo”

  • Postato il 13 maggio 2025
  • Ambiente
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Un giorno, quando ero responsabile della comunicazione istituzionale di Greenpeace Francia, andai a incontrare coloro che vengono chiamati ‘climatoscettici’. Mi rivedo ancora con le mie convinzioni forti, i miei rapporti dell’IPCC che conoscevo a memoria, petizioni che mi permettevano di dire a queste persone che avevo di fronte: ‘Non capite niente, siete pericolosi, siete degli imbecilli, abbiamo ragione noi’. Questo significava, in pratica, che la loro visione del mondo, ciò in cui credevano, ciò che li faceva sentire al sicuro nel mondo, era tutto fumo, nullo, patetico. Davvero, chi ha voglia di sentirsi dire una cosa del genere? E soprattutto: chi ha voglia di aprire un dialogo con qualcuno che gli dice, anche solo indirettamente, tutto questo?”. Nathalie Achard è una mediatrice esperta in comunicazione non violenta, un tema su cui scritto un libro illuminante. La comunicazione non violenta per chi vuole cambiare il mondo (Altreconomia). Un libro che lancia un messaggio anche al mondo ambientalista: “È importante lavorare sull’immagine del nemico. Finché nella mia mente, nel mio cuore, considero l’altro come un nemico, non ho alcuna possibilità di entrare in connessione con quella persona. Il mio cervello lo rifiuterà: è un nemico, sono in pericolo!”.

Lei sostiene che sia sbagliato essere certi che l’altro sia in errore, pur avendo dati e prove.

Se ci rivolgiamo a chi non condivide il nostro punto di vista dicendo “è falso, è sbagliato, abbiamo le prove, siete dei criminali”, chiudiamo la possibilità di incontrare l’altro a partire da ciò che abbiamo in comune: la nostra umanità. In tutti gli esseri viventi esiste un’ingiunzione vitale che urla costantemente: “prendimi in considerazione”. Questo non significa “sii d’accordo con me”, significa “non denigrare la mia esperienza, non minimizzare ciò che ho vissuto, non insultare la mia visione”. Non siamo esseri razionali: le “prove” non sono mai bastate nei grandi conflitti. Invece, l’incontro autentico e il riconoscimento dell’altro, anche e soprattutto quando non siamo d’accordo, è il primo passo per ricreare connessione.

Dividere il mondo in bene e male è dunque inutile.

Sì. Permette di avere una narrazione classica nella quale ci riconosciamo più facilmente, perché è la storia che ci raccontano fin da piccoli. È infatti al centro di tutti i miti, ma induce una visione binaria della vita, del mondo, delle relazioni che è non solo falsa (è molto più complesso), ma che porta soltanto a uno scontro violento. Rimane comunque utile (ma non sufficiente) continuare a mostrare con convinzione ciò che vediamo, condividere con emozione le nostre paure, le inquietudini, le urgenze, interpellare chi non vede le stesse cose che vediamo noi, per creare connessione. Ed è comunque fondamentale continuare a manifestare, agire insieme, far sentire la nostra voce, mostrare, esporre, proporre.

Ma perché nonostante richieste, grida e suppliche l’altro non cambia?

Noi abbiamo una visione del mondo, credenze, aspirazioni che confondiamo con una realtà che pensiamo sia la stessa per tutti. E ovviamente pensiamo di avere ragione. A partire da questa posizione, nulla può risolversi se non attraverso la violenza e l’oppressione dell’altro.

Cosa dovremmo fare allora, rispetto all’altro?

Più che metterci al posto dell’altro, propongo di fargli spazio. Invito a sviluppare una curiosità insaziabile verso l’altro: cosa sta succedendo a questo essere umano che pensa in modo così diverso da me? Cosa non vedo io? Cosa potrebbe condividere con me, spiegarmi? Ancora una volta, non si tratta di dargli ragione, ma di incontrarlo. È la nostra unica possibilità di uscire dalle catastrofi che stiamo vivendo: l’incontro.

La rabbia può ancora servire o va estirpata?

La rabbia è necessaria! È un segnale d’allarme che dice: “I miei limiti sono stati superati, la mia integrità fisica, psichica, emotiva è in pericolo”. Ed è un insieme di emozioni vulcaniche che è importante saper gestire, ed è fondamentale imparare a esprimere. Perché spesso confondiamo rabbia e violenza. Infatti, se non è gestita, la rabbia si esprimerà attraverso la violenza delle parole o dei gesti. Eppure, può essere espressa senza violenza. È un lungo cammino di apprendimento: dirò ciò che per me è insopportabile, con chiarezza, evitando però di schiacciare l’altro. Al contrario, l’espressione gestita della rabbia si prenderà cura di non denigrare, non accusare, non giudicare, non schiacciare, non punire l’altro. E sarà in grado di porre dei limiti, di esprimere ciò che per me è intollerabile, e di attivare quella che chiamo la forza di protezione. Dire no, stop, con chiarezza.

Anche il conflitto, lei scrive, è necessario.

Il conflitto è al cuore stesso della natura umana. Tuttavia, siamo cresciuti con una visione del conflitto che lo rende pericoloso. Deve necessariamente esserci qualcuno che vince e qualcuno che perde. È quindi qualcosa di violento, mentre in realtà ha tutte le caratteristiche per essere sano. E per fortuna, visto che è inevitabile.

Ma cosa fare se l’altro non ascolta e mette in atto violenza?

Se avessi una risposta semplice e rapida prenderei un megafono e la urlerei in tutte le piazze di tutte le città! Non solo l’altro non riconosce i nostri bisogni, ma spesso non riconosce nemmeno i propri. È chiaro che la nostra volontà di cambiare il mondo comporta, per sua natura, una forma di violenza, poiché chiediamo a persone che non sono d’accordo con noi di cambiare in modo incondizionato il loro modo di vivere e pensare. È una violenza relativa, perché in linea di principio non desideriamo che queste persone scompaiano. Ma ogni cambiamento ottenuto attraverso la violenza porta in sé il seme della violenza stessa.

La disperazione è un sentimento legittimo?

Abbiamo il diritto di disperare, a volte. E il dovere di perseverare, sempre. Di costruire insieme questo nuovo racconto, di rifiutare di essere vettori di violenza, di essere nel mondo ogni giorno in modo diverso da uno schema di oppressione. È così che i nuovi racconti emergono. È difficile e lungo, e lo è ancora di più sapendo che, mentre noi dedichiamo il tempo necessario a questo processo, migliaia di uomini, donne e bambini continuano ogni giorno a morire in guerre tanto orribili quanto assurde.

Quale consiglio darebbe alle associazioni e agli attivisti ambientali, spesso frustrati e sopraffatti?

Un invito a ripensare i nostri fronti d’azione, a reintrodurre il concetto di responsabilità collettiva, a interrogarci sulle posture da “salvatori”, a costruire ponti tra i diversi temi della trasformazione sociale. Ancora una volta, creare le condizioni per l’incontro e porre, senza giudizio, questa domanda fondamentale: “Perché lo fate?”.

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Il Fatto Quotidiano

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