«Nessuno ci chiede come stiamo»: voci di una generazione invisibile

  • Postato il 28 aprile 2025
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«Nessuno ci chiede come stiamo»: voci di una generazione invisibile

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Voci e dati di una generazione che si definisce invisibile. Nelle scuole italiane manca ancora in alcuni casi un supporto psicologico stabile


«Dopo la pandemia è cambiato tutto: faccio fatica a concentrarmi, a parlare con gli altri come prima. Anche se siamo tornati in classe, mi sento spesso solo, come se fossi rimasto indietro rispetto agli altri. A volte mi sembra che nessuno si accorga davvero di quanto siamo stanchi, non solo fisicamente, ma mentalmente», racconta Marco, 17 anni, studente di un istituto tecnico a Catania.

Elena, 16 anni, vive a Bergamo e frequenta il liceo scientifico. La sua esperienza è simile: «A scuola ci chiedono sempre di dare il massimo, ma nessuno ci chiede come stiamo davvero. Le giornate passano tra verifiche, scadenze e aspettative alte. Ma intorno c’è poco spazio per parlare, per sentirsi ascoltati. Le relazioni sono diventate più fredde, più veloci. Mi sento spesso sotto pressione, e la fatica non si vede, ma si sente ogni giorno».

Queste testimonianze sono lo specchio di una condizione diffusa, che attraversa le aule, i corridoi e le vite di migliaia di adolescenti italiani. Il disagio giovanile si nasconde oggi nei corridoi, tra le assenze, nei silenzi ed è divenuta una condizione strutturale che segna una generazione intera, con effetti profondi sul rendimento scolastico, sui legami sociali e sulla percezione di sé stessi.
Secondo la consultazione pubblica dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (2024), realizzata coinvolgendo oltre 7.400 ragazzi tra i 16 e i 20 anni, più della metà di questi manifesta sintomi ricorrenti di ansia o tristezza, il 49% segnala stanchezza cronica, il 46% irritabilità e quasi uno su tre dorme male. Non sorprende che oltre il 62% vorrebbe parlare con uno psicologo.

Il disagio non nasce con il Covid, ma la pandemia ne ha amplificato la portata. Il 45% dei ragazzi dichiara di essersi sentito peggio durante quel periodo e questa sensazione si riflette tuttora sul rendimento: il 40,3% afferma che i risultati scolastici sono migliorati solo rispetto alla pandemia, mentre per molti la fiducia nella scuola è calata. Il 38,3% ha perso fiducia nell’istituzione scolastica e oltre il 24% ha percepito i docenti come distaccati o focalizzati solo sulle valutazioni.

Un contesto poco accogliente, in cui la fatica mentale non trova spazio di riconoscimento, può aggravare i fenomeni di abbandono e dispersione scolastica. Anche se i dati Invalsi relativi al 2024 mostrano una lieve riduzione della dispersione implicita, questa resta alta nei contesti più fragili, dove disagio e difficoltà economiche si sommano. Come evidenziato anche dall’osservatorio #ConiBambini, realizzato da Openpolis e dall’impresa sociale “Con i Bambini”, la dispersione scolastica non è solo un numero: è spesso l’esito visibile di un malessere invisibile.

Se la scuola resta il primo spazio strutturato che i ragazzi abitano quotidianamente, la qualità delle relazioni familiari e amicali rappresenta il vero termometro del loro benessere.
Durante la pandemia, molti adolescenti hanno vissuto un inasprimento delle tensioni familiari. Il 30% afferma che i rapporti con i genitori sono migliorati, ma un 14,7% dichiara che sono peggiorati e nel 18% dei casi è peggiorato anche il clima familiare nel complesso. Restare a lungo chiusi in casa ha fatto emergere fragilità già presenti, aumentando il carico emotivo e la sensazione di non essere compresi.

Anche le relazioni amicali hanno subito trasformazioni profonde. Se da un lato quasi il 40% ha ampliato il proprio gruppo di amici, dall’altro oltre il 31% ha visto diminuire le amicizie significative. È aumentato l’uso di relazioni digitali, ma solo il 6,9% dei ragazzi afferma di preferirle: la maggior parte continua a desiderare il contatto diretto, pur segnalando maggiore fatica a gestirlo.
È come se una parte della generazione post-pandemia desiderasse relazioni reali, ma faticasse a reggerne il carico emotivo. I risultati? Meno spontaneità, più ansia sociale e più paura del giudizio. In questo scenario, la solitudine non è solo fisica, ma emotiva, relazionale, identitaria.

I ragazzi oggi studiano meno, in modo disorganico, spesso con una soglia di attenzione ridotta. Secondo i dati della stessa consultazione, il 40,4% riferisce difficoltà a mantenere costanza nello studio, il 33% ha problemi di sonno, il 31% evidenzia squilibri alimentari e oltre il 44% dichiara difficoltà a concentrarsi.
Sono segnali chiari che qualcosa non va. E la scuola, troppo spesso, non ha strumenti adeguati a leggere e affrontare questi segnali. Come denuncia ancora il progetto “Con i Bambini”, le scuole italiane non sempre dispongono di figure professionali stabili per il supporto psicologico e i percorsi di educazione socio-emotiva restano ancora marginali.

I segnali ci sono, da anni. Non è più tempo di chiedersi se esista un problema: bisogna affrontarlo con strumenti nuovi. La scuola è spesso lasciata sola di fronte al disagio crescente, senza figure professionali adeguate e senza un coordinamento con il territorio. Eppure, i ragazzi chiedono aiuto.

Non servono solo psicologi, ma adulti significativi, come docenti capaci di ascoltare, allenatori, medici, educatori. È necessario costruire una rete educativa stabile e integrata, in cui scuola, sanità, terzo settore e famiglie collaborino in modo continuativo. Occorre formare il personale scolastico affinché sia in grado di riconoscere i segnali del malessere e intervenire tempestivamente, ma soprattutto è il momento di superare l’idea che il disagio giovanile sia un problema individuale: va riconosciuto per ciò che è, uno specchio fedele della società che stiamo costruendo.

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