Nicola Bombacci, il comunista che morì fascista

  • Postato il 29 aprile 2025
  • Di Panorama
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A ottant’anni dalla Liberazione e da piazzale Loreto, vorrei raccontare la strana storia del primo comunista italiano che finì appeso per i piedi accanto a Mussolini. Si chiamava Nicola Bombacci, fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista, capeggiò i massimalisti che fecero la scissione comunista di Livorno, fu l’unico italiano amico personale di Lenin, ma morì da fascista, fucilato a Dongo. Bombacci somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava pure Garibaldi. Era un rivoluzionario e un confusionario. Un personaggio controverso, rimasto nella penombra perché imbarazzante per tutti, fascisti, antifascisti e comunisti. Bombacci fu una figura leggendaria che meriterebbe un film o una fiction perché racchiude nella sua esperienza le due principali rivoluzioni del Novecento. 

Nel 1921 Bombacci fondò, insieme con Gramsci, Togliatti, Tasca e altri fuorusciti dal Psi, il Partito comunista d’Italia. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo» così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico storico e infine camerata e consorte nella tragedia di Dongo. Romagnolo come lui, quattro anni più di Mussolini, maestro elementare pure lui, cacciato anch’egli dalla scuola perché sovversivo; compagno di lotte, di prigione e di giornali del futuro duce, e come lui nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista e fascista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso ed esposto con lui a piazzale Loreto, dopo aver gridato «Viva il socialismo» e, forse, «viva Mussolini» (o «w l’Italia» secondo altri). 

A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin) e da una famiglia cattolica e papalina di Civitella di Romagna; egli attraversò nella sua vita tutte le fedi nazionali: il cristianesimo, il socialismo, il comunismo e il fascismo. Pagando sempre di persona. L’anno in cui fondò il Pcd’I, Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano «Con la barba di Bombacci/ faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini». I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba fluente. Barba e zazzera biondastre e incolte, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce lenta e appassionata, impetuoso oratore e trascinatore di piazza. 

Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio a Fiume quando proclamò la Carta del Carnaro. Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: «Li conosco i comunisti, sono figli miei». Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani a essere ricevuto in separata sede da Lenin nel 1920, da cui ricevette denaro, oro e platino per la propaganda. 

A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del Partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincise col 28 ottobre del 1922 quando i fascisti marciarono su Roma. Fu così che mentre i leader comunisti italiani erano a Mosca a celebrare la rivoluzione bolscevica, Mussolini conquistava senza resistenze rosse il potere a Roma. Da allora Bombacci, collaboratore della Pravda, diventò sostenitore dell’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in parlamento. Bombacci poi sostenne la necessità per i comunisti di infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come entrismo a metà degli anni Trenta). 

Fu lui il primo comunista a entrare nella Camera dopo l’avvento di Mussolini al potere. Non fu arrestato né aggredito, come si temeva. Tornò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin, guidando la delegazione italiana. Incontrò più volte anche Stalin. Bombacci fu espulso dal partito per deviazionismo e indegnità politico-morale il 1928, dopo aver dato vita al primo traffico commerciale tra l’Italia e l’Urss attraverso un’agenzia di export-import con l’Est comunista; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Anche allora si parlò di tangenti, i comunisti lasciarono cadere i sospetti su di lui, ma Bombacci continuò per tutta la vita a navigare tra i debiti, e fu aiutato proprio dal suo antico compagno e rivale Mussolini. 

Mussolini gli finanziò pure l’unico giornale fasciocomunista degli anni Trenta, La Verità, che già nella testata ricordava la Pravda. Un giornale odiato da Starace e dai fascisti, che continuò a uscire fino al 1943. Dalle sue pagine fu anche teorizzata l’Autarchia. Bombacci perseguì nella rivista il progetto di unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino fino al ’41, quando la rottura del patto Molotov-Ribbentrop e l’alleanza del comunismo con le plutocrazie occidentali lo portò a condannare l’abbraccio col capitalismo e a schierarsi col fascismo. Ai tempi di Salò, Bombacci aveva i capelli corti e la barba non più selvaggia, una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati e borghesi. Ma coltivò fino alla fine il suo velleitario socialismo: memorabile fu il suo ultimo discorso agli operai di Genova il 15 marzo del 1945. Con Carlo Silvestri sostenne l’estremo tentativo avallato da Mussolini di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria ma il messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi fu cestinato dai capi partigiani. Si deve a Bombacci l’uso del termine «socializzazione» e fu lui a scrivere la prima bozza che dette vita alla Carta di Verona e a sognare, col fascismo di sinistra, la nascita dell’Urse, l’Unione delle repubbliche socialiste europee. Poi la fucilazione col cartello «supertraditore», presagio della damnatio memoriae seguente. Cadde con gli occhi azzurri rivolti verso il cielo, come si addice a un sognatore a occhi aperti.

Autore
Panorama

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