Niente salto verso l’autonomia: perché i bancari restano dove sono

  • Postato il 21 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ogni anno, numerosi studi e sondaggi ci raccontano che un terzo dei bancari starebbe pensando di lasciare la propria scrivania in filiale per abbracciare la vita – tanto sognata quanto idealizzata – del consulente finanziario indipendente. I dati appaiono eclatanti: desiderio di libertà, voglia di autonomia, ambizione di crescere professionalmente e redditualmente senza più i vincoli dell’impiego tradizionale. Ma poi?

Poi quasi nessuno fa davvero il salto. E ogni volta che questi sondaggi vengono pubblicati, LinkedIn si popola come d’incanto di post scritti dai capi area delle reti, pronti a captationes benevolentiae, agendo sulla leva psicologica alimentata dall’articolo di turno del Sole 24 Ore: post pieni di entusiasmo e inviti velati a “cogliere l’occasione”, come se bastasse un hashtag o un commento ispirato per convincere qualcuno a cambiare vita.

Qui sta la grande verità che pochi vogliono ammettere: un conto è “pensare” di andare via, un altro è trovare il coraggio di farlo. La realtà ci restituisce l’immagine di un bancario spesso prigioniero delle proprie paure: paura di perdere la sicurezza dello stipendio fisso, timore di non essere in grado di costruire un portafoglio clienti competitivo, ansia davanti all’idea di dover gestire un’attività in proprio senza il parafulmine della banca alle spalle. È la sindrome del “vorrei ma non posso”, o meglio, del “vorrei ma non oso”.

Eppure, le reti di consulenza non fanno molto per invertire questo trend. Anzi: spesso sembrano cieche nel leggere i veri bisogni di chi vorrebbe davvero valutare un cambiamento. Lo dimostrano le stesse indagini: ciò che il bancario cerca è un’organizzazione che sappia essere solida e affidabile, che ponga attenzione ai dipendenti (o collaboratori), che offra reale supporto nella costruzione della nuova carriera. Invece, troppo spesso le reti puntano solo su slogan, su una comunicazione patinata, sull’illusione di una libertà che poi non si traduce in reale accompagnamento nel percorso di transizione.

A questo si aggiunge un altro aspetto, ancora più sottile e rilevante: i benefit che i bancari realmente percepiscono come fondamentali, al di là delle risposte standardizzate ai questionari. Nella realtà, al bancario che sta valutando un passaggio verso il mondo della consulenza non interessa tanto la promessa di autonomia o le sirene di una presunta “libertà imprenditoriale”. Ciò che conta davvero – come emergeva chiaramente già in una ricerca di Imperatore Consulting per un progetto di recruiting fatto per una importante banca-rete – è l’esistenza di un sistema che garantisca un’effettiva attenzione e supporto al collaboratore nella fase di transizione, un’organizzazione manageriale solida e competente che non lasci il neo-consulente solo a gestire le difficoltà, un modello che offra strumenti concreti per lo sviluppo della clientela e per la costruzione del proprio business, e la reale possibilità di avere un equilibrio tra vita professionale e personale.

Ma soprattutto, un sistema che preveda misure concrete come:
– un ufficio di rappresentanza (evitando di collocarli in anonimi open space), non lontano dall’ultima sede lavorativa, per compensare la mancanza del brand forte alle spalle (la precedente banca) e offrire un ambiente adeguato e ancora più rappresentativo della precedente collocazione in filiale;
– un’offerta reddituale “certa”, a titolo definitivo e non come anticipo provvigionale, per un periodo di 2-3 anni;
– i classici benefit bancari: limite di sconfinamento sul conto corrente, surroga di eventuali mutui/prestiti, condizioni agevolate sui rapporti bancari, carte di credito, polizza sanitaria gratuita;
– una convenzione con un dottore commercialista per la gestione completa, gratuita per 2 anni, e “senza pensieri” della fiscalità del professionista che, fino a quel momento, da lavoratore dipendente, era molto meno complessa;
– il coinvolgimento del coniuge nel processo di selezione e conoscenza reciproca, anche attraverso incontri presso la sede di rappresentanza;
– colloqui di selezione con manager apicali e un selezionatore-mentore qualificato, per offrire un supporto reale e credibile nella scelta;
– assistenza e spese legali, oltre all’eventuale risarcimento danni, per difendersi in caso di contestazione di un eventuale patto di non concorrenza fatto sottoscrivere dalla banca che sta per lasciare.

Sono questi i fattori (spesso più psicologici che materiali) che realmente possono fare la differenza e accompagnare il bancario nella decisione di abbandonare la comfort zone per costruire un nuovo futuro. Non le facili promesse o le campagne di marketing, ma un pacchetto strutturato e concreto, capace di rispondere alle vere paure e ai veri bisogni di chi sta valutando un cambiamento così radicale.

Sono questi i fattori percepiti come decisivi. Non le “facili promesse” di guadagni strabilianti o le immagini patinate di una vita senza orari e senza capi. E qui sta la miopia delle reti: non intercettano questi veri desideri, questi veri bisogni. Continuano a parlare un linguaggio che non convince e non rassicura, lasciando i potenziali candidati prigionieri del dubbio e, alla fine, immobili.

E così l’occasione si perde, da entrambe le parti: i bancari restano intrappolati in un limbo fatto di insoddisfazione e paure, le reti continuano a lamentare la difficoltà di attrarre veri talenti dalle banche, senza mai interrogarsi seriamente su come rispondere alle aspettative di chi valuta il passaggio. Perché, alla fine, una cosa è certa: un conto è pensare di cambiare vita, un altro è decidere davvero di farlo. E per farlo serve coraggio, sì, ma anche un sistema capace di accompagnare e sostenere quella scelta fino in fondo.

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Il Fatto Quotidiano

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