Pepe Mujica? Un grande ‘influencer’ senza cellulare. Dietro la leggenda, alcuni luoghi comuni
- Postato il 17 maggio 2025
- Blog
- Di Il Fatto Quotidiano
- 1 Visualizzazioni
.png)
Ancora non è chiaro, in queste molto lunghe e molto solenni e ore di veglia e di cortei funebri, in quale luogo troveranno infine sepoltura e riposo le ceneri di José Mujica Cordano, già “presidente povero” della República Orientál del Uruguay e già un’assai lunga ed alquanto variegata serie d’altre cose: corridore ciclista, dirigente locale, a cavallo tra gli anni 50 e 60, della corrente “herrerista” del conservatore Partido Nacional, rapinatore di banca (il suo primo arresto risale al giugno del 1964, quando, ancora militante del gruppo anarchico MIR, Movimiento de Izquierda Revolucionaria, assaltò a mano armata una sede d’una impresa finanziaria), guerrigliero urbano nelle fila o, meglio, alla testa del Movimiento de Liberación Nacional Tupamaros, prigioniero politico, ostaggio “sepolto vivo”, per 12 anni, dalla feroce dittatura civico-militare che attanagliò l’Uruguay tra il 1973 e il 1985, fondatore del Movimiento de Partecipación Popular, oggi corrente maggioritaria del Frente Amplio e, infine – e qui arriviamo ai giorni nostri – universale simbolo di sobrietà e saggezza, di personale redenzione, di stoica resistenza, di riconciliazione e perdono, di lungimirante speranza al di là, anzi, al di sopra delle miserie della politica.
Una sorta di oracolo, insomma, per quanti, in ogni angolo del pianeta, ancora si sentano “di sinistra”.
Una cosa però è certa. Nei giorni del suo lungo addio, durante decine di interviste ed in attesa che la malattia ultimasse il suo cammino, El Pepe aveva esplicitamente chiesto che quel che di lui restava venisse sepolto, senza cerimoniale alcuno, ai piedi d’un albero nella modesta “chacra” dove sempre è vissuto dopo la liberazione dal carcere. Ovvero: nello stesso luogo dove, nel febbraio 2018, lui stesso aveva, “con il cuore spezzato”, interrato Manuela, la cagnetta a tre zampe di razza “perro” – eufemismo uruguayano per bastardo – che per 22 anni gli era stata accanto.
Ed altrettanto certo è che, se così fosse – se davvero, al di là d’ogni formalismo, i desideri del Pepe venissero esauditi – si tratterebbe d’un bellissimo, luminoso finale, d’un lampo di verità e di genuino amore (d’amore, in questo caso, ingigantito dal rimorso, visto che fu proprio lui, El Pepe, ad azzoppare la povera Manuela con un’avventata manovra alla guida d’un trattore) nella compunta melassa, inevitabilmente intrisa d’ipocrisia, che accompagna ogni funerale, specie quando di pubbliche celebrità si tratta. E sarebbe anche un atto di storica giustizia, considerato che, lungo tutto il periodo di formazione e consolidamento del mito del “presidente povero”, Manuela è regolarmente entrata in tutte le fotografie, parte integrante, essenziale, dell’immagine che, di quel mito, è stata base e alimento.
Che altro si può dire, del Pepe, oltre la sua sepoltura e oltre la montante retorica funeraria? Una innanzitutto. Che, al di là d’ogni giudizio politico, Josè Mujica Cordano, il “presidente più povero del mondo” è indiscutibilmente stato uno dei più integrali esempi – lui che, a quanto si dice, mai ha toccato un computer, o un cellulare – del più tecnologicamente moderno dei mestieri: quello dell’influencer. Perché proprio in rete – nella rete che lui mai ha frequentato – il suo mito ha preso forma e si è diffuso a livello planetario
Molti ricorderanno. Correva l’Anno del Signore 2012, quando nel corso di una riunione del G20 tenutasi a Rio de Janeiro, il presidente della República Oriental del Uruguay prese la parola per comunicare al mondo quale, del mondo, fosse la sua visione. Citando Seneca ed Epicuro, Mujica aveva, in quel paludato consesso, parlato di povertà e di sviluppo, usando concetti e parole estranee all’inamidato lessico delle convenzioni politiche. Povero, aveva detto, non è chi possiede poco, ma chi sente la necessità di molto più di quanto abbisogna per raggiungere quella cosa semplice e dimenticata (dimenticata perché sacrificata sugli altari della religione del consumo) che si chiama “felicità”. E due cose aveva ricordato. La prima: che per essere felici – non per produrre e consumare cose che non ci servono –camminiamo per le strade del mondo. E, la seconda: che solo recuperando questa idea di felicità – oggi assassinata dal mercato, dio avido e crudele – possiamo salvare il mondo dall’auto-distruzione.
Riprodotto all’istante su YouTube e su ogni altro “social” questo discorso è d’acchito diventato una bandiera, un manifesto di resistenza ambientalista. Ed il Pepe è, all’istante diventato, con tutta la forza delle più moderne forme di comunicazione, il volto e la voce dell’anticonsumismo, un re della Rete proprio perché in rete mai aveva messo piede, e perché quel volto e quella voce alla perfezione si sposavano con le immagini “pre-tecnologiche” d’un vecchio vestito nel più trasandato dei modi affiancato da una cagnetta sciancata, sullo sfondo d’una vecchia fattoria con i muri anneriti dall’umidità, E , soprattutto, con una magica, rivoluzionaria parola – “felicità” – attorno alla quale tutto girava. La leggenda a due facce di José “el Pepe” Mujica, il “presidente povero” e di José “el Pepe” Mujica, potentissimo influencer planetario è nata paradossalmente così: in Rete proprio perché lontanissimo dalla Rete. Anzi: perché diametralmente contrapposto alla Rete.
Su questa leggenda – che, come ogni leggenda regala pagine di splendore, ma nasconde molte verità, o le deforma trasformandole in luoghi comuni – sono stati scritti, nell’ultimo decennio dozzine di libri e girati film (vedi “La notte lunga 12 anni” di Alvaro Brechner). Ed innumerevoli sono le interviste pubblicate o trasmesse, in tema, sui media del mondo intero. Tutte in qualche modo riassunte nel pluripremiato documentario – “El Pepe, una vita suprema” realizzato, nel 2019, da Samir Kusturica.
Quali sono, dunque, nel corpo di questa leggenda, i luoghi comuni scambiati per perle di popolare saggezza? Quali sono queste verità nascoste o deformate? Fondamentalmente tre.
La prima: al di là dell’universale cordoglio di queste ore, el Pepe resta in realtà, soprattutto in patria, una figura controversa, non solo nelle relazioni tra destra e sinistra, ma anche all’interno della stessa sinistra. E questo in virtù d’un irrisolto nodo storico-politico. La leggenda presenta, infatti, un Pepe Mujica – il Pepe Mujica Tupamaro – come un lottatore contro la dittatura. Si tratta, però, d’un ovvio falso storico. Nessuno può oggi seriamente mettere in dubbio la fede democratica del “presidente più povero del mondo”. Ma quel Mujica, il Mujica Tupamaro, non lottò contro la dittatura, lottò contro la “democrazia borghese”. E salutò ogni passo verso la dittatura – tutti i documenti del MLN lo confermano – come un momento di avanzata verso una inevitabile e rivoluzionaria insurrezione popolare.
Lo schema – comune a pressoché tutte le organizzazioni armate di quel periodo, non solo in America Latina – era tanto semplice, quanto catastroficamente errato. La democrazia non è che la maschera del potere borghese. Facciamo cadere quella maschera e, di fronte alla brutale realtà delle cose, il popolo si solleverà. Nel giugno del 1973, quando il presidente Juan Maria Bordaberry, ormai ostaggio dei militari, sciolse il Parlamento e aprì il tetro capitolo della dittatura, Mujica già si trovava in carcere da un anno e il MLN già era stato spazzato via, in appena sei mesi di campagna repressiva, dal mostro che, come l’apprendista stregone della favola, aveva tanto imprudentemente evocato. “Voi avete giocato alla guerra e noi siamo finiti in carcere”. Questa ancor oggi, dentro il Frente Amplio, è l’accusa che la vecchia guardia comunista, socialista e sindacale rivolge agli ex Tupamaros.
Seconda cosa: Mujica è diventato, in virtù del suo discorso di Rio, una bandiera dell’anticonsumismo e dello sviluppo sostenibile. Ma chiunque dovesse proporsi di cercare, nelle attività del Mujica governante – prima come ministro dell’Agricoltura e poi come presidente – tracce dei principi in quel discorso elencati, perderebbe di fatto il suo tempo. Gli anni di Mujica al governo sono stati caratterizzati dalla più rapida espansione delle coltivazioni estensive – soia destinata all’insaziabile mercato cinese, soprattutto – e dei prodotti transgenici. Tutte bestemmie per il movimento ambientalista.
Terza cosa: nelle sue interviste José Mujica ha sempre molto chiaramente sottolineato come la sua sobrietà, la sua povertà intesa come via verso la vera felicità fosse qualcosa di personale che non aveva alcuna pretesa di esportare, perché non esportabile. Per lui si trattava, evidentemente, d’una scelta di vita e non di una linea politica.
Dunque, che cosa resta, sommate queste tre cose, del grande messaggio di Rio? Qual è a conti fatti, il vero responso dell’oracolo? Qual è, oggi, il “che fare” trasmesso dalla Sibilla? Difficile rispondere. E, Impegnato nel suo finale, tenero reincontro con la dolce Manuela el Pepe non può più, a questo punto, approfondire il concetto. Potesse farlo – ci si può tuttavia scommettere – pescherebbe qualcosa dall’inesauribile riserva di popolare saggezza (quella che i più cinici chiamano banalità) tante volte sfoggiata nelle sue interviste. Anche in questo caso, direbbe citando una volta ancora il suo amato Seneca, bisogna sapersi accontentar di quel che passa il convento.
L'articolo Pepe Mujica? Un grande ‘influencer’ senza cellulare. Dietro la leggenda, alcuni luoghi comuni proviene da Il Fatto Quotidiano.