Phica, la lotta alla violenza di genere non è una questione femminile ma un problema maschile
- Postato il 31 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Graziano Lanzidei
C’era questo sito, Phica.eu, rimasto online per anni a raccogliere foto di donne prese senza permesso. I creatori hanno detto che non era loro intenzione, chissà cosa pensavano di fare, con foto rubate dai social, scattate di nascosto, manipolate con deepfake per spogliare virtualmente le donne e scaraventarle lì sopra a loro insaputa. Un archivio sterminato: centinaia di migliaia di iscritti, milioni di messaggi, un gigantesco mercato nero del corpo femminile.
Dentro c’era di tutto: ragazze comuni, influencer, attrici, politiche. Valeria Campagna, giovane dirigente politica, è stata la prima ad avere il coraggio di denunciare. Poi Alessandra Moretti, Alessia Morani e Lia Quartapelle hanno seguito la stessa strada. E tra i nomi finiti nel tritacarne ci sono state persino le due leader nazionali Giorgia Meloni ed Elly Schlein, vittime anch’esse di questo meccanismo. Foto allo stadio, in spiaggia, a eventi pubblici, sbattute lì, zoommate, commentate, sempre degradanti, disgustose, incivili.
Le donne hanno reagito. Moretti ha parlato di “una schifosa nuova modalità” di abuso. Campagna di “cultura dello stupro”. Da lì il vaso si è scoperchiato: solidarietà bipartisan, politica e società civile schierate contro questa vigliaccheria. Eppure questa roba succede da anni. In Italia i gruppi Facebook tipo Mia moglie, all’estero i forum delle creepshots su Reddit e 4chan, i deepfake su Telegram, le chat su Discord.
In Corea del Sud le donne hanno manifestato con lo slogan “My Life Is Not Your Porn”, contro le molka: microcamere nei bagni, nelle metropolitane, negli uffici. Riprendevano tutto e tutto finiva su siti come Soranet, dove gli uomini arrivavano a pubblicare foto delle fidanzate chiedendo agli altri di valutarle. Una scena che ricorda troppo da vicino i nostri casi definiti “goliardici”.
Gli esperti parlano ormai di digital sex crimes: crimini sessuali veicolati dalla tecnologia, dalla cattura non consensuale (spycam, upskirting) alla diffusione di foto private, fino ai deepfake. Il minimo comune denominatore è sempre lo stesso: manca il consenso. Non c’è mai. Le conseguenze sono pesanti: ansia, depressione, perdita di fiducia, fino al suicidio. Non è passatempo, è violenza.
Qualcuno ha dato la colpa a internet, ma Phica è figlio del patriarcato, mica del web. Non poteva restare fuori dalla dimensione virtuale il peso di secoli di cultura dove il corpo femminile è sempre stato proprietà maschile. Carla Lonzi lo diceva già nel 1970: “Non siamo nate per essere oggetto di cultura maschile, ma per creare la nostra cultura”. Cinquant’anni dopo ci ritroviamo ancora con forum pieni di uomini convinti che una foto su Instagram sia merce pubblica.
E chi c’era dietro a Phica? Non mostri, ma uomini comuni. Colleghi, padri di famiglia, medici, insegnanti, catechisti. Persone rispettabili che nel tempo libero si sentivano in diritto di consumare corpi altrui. In psicologia lo chiamano entitlement: la sensazione di avere diritto al corpo delle donne. Emma Thompson lo ha scritto chiaramente: “Secoli di senso di diritto sul corpo delle donne non scompariranno dall’oggi al domani”. Invece di scomparire, questi diritti inventati hanno trovato nuovi canali per diffondersi.
Il patriarcato non vive solo di chi compie queste cose, ma anche di chi sta zitto. Di chi ride alle battute sessiste, di chi in chat non dice nulla quando girano foto compromettenti, di chi pensa che “sia un problema delle donne”. E invece no: è un problema nostro, degli uomini. Lo ha detto bene la senatrice Valeria Valente: “La violenza contro le donne non è un problema delle donne, ma degli uomini”. E quando Phica è stato scoperto? Panico. Utenti che imploravano: cancellate i miei post, toglietemi l’account. Gente che aveva pubblicato “mia cognata” o “la mia collega” e ora tremava. Perché il branco, quando lo guardi in faccia, scappa. Tutti sanno benissimo quello che hanno fatto.
La solidarietà è giusta ma non basta. Non basta scrivere un post indignato, dire “siamo vicini alle vittime” e poi stop. È arrivato il momento di andare oltre. Serve un cambiamento culturale, e riguarda gli uomini, prima di tutto. Vuol dire rompere il silenzio, non ridere alle battute, non voltarsi dall’altra parte. Intervenire quando un amico fa lo “spirito” sul corpo di una ragazza, quando qualcuno gira una foto senza consenso, quando il linguaggio è tossico. E serve educazione: dei bambini, dei ragazzi, ma anche degli adulti. Capire che una foto online non è un lasciapassare. Che il corpo di una donna non è un bene pubblico. Che il consenso è il punto di partenza, non un optional.
La lotta contro la violenza di genere, anche digitale, non è una questione femminile. È un problema maschile. Gli uomini devono assumersi la responsabilità di cambiare questo modello: disimparare la prepotenza, rinunciare ai privilegi, scegliere il rispetto. Il patriarcato non è un fossile polveroso: è una macchina che ancora oggi funziona benissimo. Spegnerla non sarà facile, ma si può. A patto che noi uomini smettiamo di essere complici silenziosi.
Andare oltre la solidarietà non è retorica: è l’unico modo per restituire alle donne – e alle nuove generazioni – la fiducia di vivere senza paura.
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