Porgy & Bess, l’opera nera non politicamente corretta

  • Postato il 30 ottobre 2025
  • Cultura
  • Di Agi.it
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Porgy & Bess, l’opera nera non politicamente corretta

AGI - "Signor Bubbles, sarei onorato se lei accettasse di essere Sportin’ Life". George Gershwin affidava così, dopo l’audizione, uno dei ruoli principali della sua opera “Porgy and Bess” che sarebbe andata in scena per la prima volta il 30 settembre 1935 al Colonial Theatre di Boston.

La scelta di John Bubbles dopo averlo accompagnato al pianoforte dimostrava l’intuito del compositore russo-ebreo-americano: per impersonare lo spacciatore di cocaina che strappa Bess da Porgy portandola a New York, ed è facile immaginare a fare cosa, Gershwin scelse un cantante sì abbastanza noto, ma che non sapeva leggere le note sullo spartito e non aveva la voce impostata. Voleva Sportin’ Life proprio così, anche se poi diventerà un tenore. 

Il Metropolitan di New York aprirà le porte solo 50 anni dopo il debutto 

L’episodio venne raccontato dall’ormai anziano Bubbles nel 1985, mezzo secolo dopo la prima assoluta a Boston. Solo il 6 febbraio 1985, infatti, il Metropolitan Opera di New York finalmente metteva in scena “Porgy and Bess”, che la Scala di Milano aveva ospitato già nel 1952. Uno dopo l’altro cadevano i preconcetti e le riserve sulla musica di Gershwin, un talento istintivo col dono innato della creatività. Non era solo il geniale autore di canzoni che l’avevano reso ricco e famoso, non solo il creatore della “Rhapsody in Blue” che nel 1924, a 26 anni, lo aveva rivelato in quel tentativo fortunatissimo di jazz sinfonico. Era un compositore autodidatta che aveva scoperto sé stesso in una dimensione colta che col suo stile spontaneo poteva essere anche popolare.

Al culmine della fama, incurante delle critiche e degli snobismi degli accademici – eppure riconosciuto esponente di spicco del Novecento anche da Arturo Toscanini che con la sua NBC Orchestra aveva imposto nel repertorio “An American in Paris” e quindi la sua produzione sinfonica – aveva deciso di affrontare il monumento assoluto della musica: l’opera lirica. Aveva in un primo tempo rivolto la sua attenzione a un libretto di Renato Simone, di argomento ebraico, ma i diritti erano stati ceduti a Lodovico Rocca che infatti avrebbe presentato “Il Dibuk” al Teatro alla Scala il 23 dicembre 1934. Allora si era rivolto a un testo di Edwin DuBose Heyward scritto in collaborazione con la moglie Dorothy, immerso nell’humus afroamericano. 

In ritiro in un villaggio di pescatori per comporre blues, spirituals e arie 

Se il jazz era totalmente nelle sue corde, altro era interpretare la melopea nera, e per di più con un libretto mediocre in cui i personaggi sono stereotipizzati. In seguito Gershwin dirà con orgoglio che tutti i blues, tutti gli spirituals, tutti i temi di “Porgy and Bess” erano suoi e non rielaborazioni del repertorio orale dei pescatori della Carolina del Sud dove si era trasferito per conoscere, capire e comporre, rinunciando a guadagni favolosi scrivendo canzoni per Broadway e colonne sonore per Hollywood. L’apparizione sulla scena di questa opera-folk gettò nello sconcerto gli ambienti intellettuali: ci fu chi vide la consacrazione di un autore genuinamente americano che incarnava genialmente il mito del “self-made man”; e chi ne stigmatizzò i luoghi comuni, la presunzione di parlare fermandosi alla superficie di una realtà che non era la sua, e di affidare un intero cast a cantanti di colore.

E poi ci fu anche chi demolì tutto quello che poteva sminuire, con la spocchia di rifiutare di riconoscere la novità spiazzante, soprattutto perché era troppo facile riconoscere e memorizzare i temi gershwiniani. Uno per tutti: “Summertime”, la ninna-nanna che è la canzone più incisa, più rielaborata e più arrangiata del Novecento, di una purezza tale da poter essere scambiata il più delle volte per hit leggera o jazz, e che pochi accostano invece alla lirica.

Le debolezze del libretto, che il fratello di Gershwin, il fidato e talentuoso paroliere Ira tentò di irrobustire con i testi dei songs, sono note. Bess è una specie di Lucia manzoniana, trascinata dagli eventi che non tenta neppure di provare a indirizzare; Porgy, lo storpio, vuole quello che non può ottenere perché quell’amore (Bess, you is my woman now; I love you Porgy; You’ve got a man now. You’ve got Porgy!) è destinato a finire male; Crown è un rozzo delinquente, protettore di Bess, destinato alla fine peggiore; e Sportin’ Life è subdolo, malvagio, laido, e sembra pure averla vinta sui sentimenti (It ain’t necessarily so; There’s a boat dat’s leavin’ soon for New York). 

La scoperta della lirica come vocazione e i progetti stroncati dal destino 

Che Gershwin fosse un compositore maturo e totalmente padrone delle voci (ma questo lo si sapeva), dell’orchestrazione e del pathos della linea narrativa, lo dimostra non solo con la collana rilucente di liriche in forma chiusa e dei recitativi suggestivi, ma anche con la purezza dell’ispirazione e l’equilibrio nella tecnica. Descrive in musica un uragano (atto II, scena 4) che sembra materializzarsi sulla scena, scrive una fuga dalla ritmica serrata per il duello mortale Crown-Porgy (atto III, interludio), muove le parti corali con abilità e sicurezza.

Non tutti lo capirono all’epoca, e infatti i grandi teatri americani e i templi della lirica non gli spalancarono affatto le porte, persino con scuse opposte: da un lato era scabroso portare in scena un’opera negra nell’America razzista, dall’altro era razzista Gershwin che li faceva parlare in un inglese storpiato e tipizzava i personaggi disegnati nel sottobosco nero più degradato nell’immaginario villaggio di Catfish Row. E poi non era chiaro se fosse davvero opera lirica, un’operetta pretenziosa, un musical dilatato, uno spettacolo folk di canzoni e cori, teatro verista d’invenzione o cartolina illustrata in musica. Eppure Gershwin aveva capito che la sua strada era la lirica, e che da “Porgy and Bess” iniziava per lui una nuova fase compositiva.

Aveva già iniziato a pensare a una nuova opera, e abbozzato un quartetto per archi, quando il fastidioso mal di testa da cui era perseguitato, che i medici attribuivano a un esaurimento nervoso, si rivelò all’improvviso un tumore al cervello in fase avanzata. Tentarono l’impossibile per strapparlo al suo destino, persino un’avveniristica quanto disperata operazione in collegamento radio. Il giorno della morte, l’11 luglio 1937, da Roma era arrivata la nomina ad Accademico di Santa Cecilia. Gershwin aveva appena 39 anni: era nato Jacob Gershowitz, figlio di immigrati ebrei russi, e col jazz e la musica nera era diventato la voce dell’America che soffriva di un mai superato complesso di inferiorità con la colta Europa. 

Una folla straripante ai funerali. I giudizi di Schönberg, Ravel e Stravinskij 

Ai suoi funerali, celebrati nella sinagoga di New York, si riversarono decine di migliaia di persone che la polizia a cavallo non seppe come contenere. Si contarono incidenti e feriti. L’orazione funebre venne tenuta da Arnold Schönberg, che era molto amico di Gershwin, giocava assieme a lui a tennis, e dal quale aveva ricevuto un ritratto, perché l’autore della “Rhapsody in Bue” era anche un bravo pittore. Il mondo stilistico dell’austriaco era quanto di più lontano potesse concepirsi rispetto a quello gershwiniano, eppure Schonberg spese non solo toccanti parole nei confronti della persona, ma lodò apertamente e senza riserve la sua musica.

Perché ci credeva e ne aveva subito compreso la grandezza. Gershwin dopo aver scritto “An American in Paris” aveva chiesto a Maurice Ravel di dargli lezioni di composizione e il francese gli rispose: "Perché volete essere un Ravel a scartamento ridotto se siete un Gershwin di prima qualità?». E quando l’americano fece lo stesso con Igor Stravinskij, il russo si limitò a chiedergli quanto guadagnasse l’anno con la sua musica e, ascoltata la cifra, gli disse: «Ma allora siete voi a dover dare lezioni a me".     
  

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Autore
Agi.it

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