Raccontare a Palermo la città di Milano. Alessandro Di Giugno in mostra da Officine Bellotti

  • Postato il 26 luglio 2025
  • Fotografia
  • Di Artribune
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“Fenomenale” la definisce Alessandro Di Giugno (Palermo, 1977), con una punta di ironia screziata d’amarezza. La sua Milano è un fenomeno, sì, ma visto all’incontrario, di sbieco, forse troppo da vicino e senza residui d’illusione. Vissuta, spiata, abitata, fotografata. Non è quella dei grattacieli svettanti, dei cantieri ininterrotti, dei servizi tarati sui migliori standard europei, dei poli tecnologici e del mattone a peso d’oro, della riqualificazione febbrile che ossigena economie e comitati d’affari, dei quartieri tirati a lucido, efficienti, sostenibili, ecologici, ubriacati di futuro. Non è la Milano smagliante e spietata, così poco italiana in questa frenesia del fare e del non procrastinare, in questo romanticismo delle radici sacrificato nel nome di un’ossessiva fioritura. E non è la Milano del fashion, del design, dell’art system, degli opening, dei party, della comunicazione come priorità e disciplina.
Non è la città capovolta che in questi giorni riempie le pagine dei giornali, tra cronaca giudiziaria e valutazioni politiche, mentre si assiste all’esplosione di una gigantesca bolla – quella della rigenerazione urbana – che non è chiaro cosa davvero potrà raccontare di un intero sistema e delle sue nubi presunte.

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Alessandro Di Giugno, Milano è fenomenale, 2025, Officine Bellotti, Palermo

L’esperienza milanese di Di Giugno nelle sue fotografie

L’installazione fotografica allestita alle Officine Bellotti di Palermo, dal titolo Milano è fenomenale, cristallizza lo sguardo di un palermitano, insegnante e artista, trovatosi per una parentesi professionale nella più internazionale delle città italiane: una cattedra in una scuola superiore, la curiosità per l’ambiente artistico e i luoghi della fotografia, una stanza in un appartamento condiviso con dei colleghi, e via via tutta la difficoltà di penetrare i circuiti chiusi di una metropoli tanto aperta quanto elitaria, tanto accogliente quanto ostile, egoriferita, bellissima, difficile, controversa, pretenziosa. Una selva di solitudini incrociate, l’Eldorado del lavoro, delle opportunità, delle relazioni, e il controcanto della precarietà, del denaro che non basta, della povertà e del disagio sociale che non si nascondono come polvere sotto al tappeto.
Una città per ricchi, dicono. Una città che mastica progresso ma a cui manca una visione intellettuale, un reale progetto culturale. La narrazione inclemente bilancia quella entusiastica, e intanto Milano corre, edifica, non prende fiato e guarda al 2028, con la sfida delle Olimpiadi a cui intitolare le prossime trasformazioni.
Di Giugno porta con sé la sua camera e i suoi obiettivi, ma soprattutto una storia di ricerca che lo colloca tra gli artisti siciliani più interessanti dediti alla fotografia. Non in quanto tecnica, ma in quanto strumento di lettura del mondo, delle cose.

Milano, una città invisibile in mostra alle Officine Bellotti

Tra il 2022 e il 2023 Di Giugno trasforma quest’esperienza meneghina in esercizio dello sguardo, in nuova occasione di produzione. Ne viene fuori una collezione di scatti che è un diario non intimo, non autobiografico, non sentimentale; un reportage in perfetto stile urban, dedicato alla strada e alle pieghe della città più autentica e ruvida, ma senza le pretese dell’inchiesta sociale o della catalogazione antropologica. Passanti, accrocchi di gente tra i vicoli e le piazze, crew di creativi, animali da concerto, gang di periferia e lavoratori in sella a bici elettriche rattoppate, contraffatte, sgangherate, un esercito di corrieri al servizio della religione del consumo, traghettatori di junk food, di droghe pesanti o leggere, di inutili merci da trasformare in scorie.
E nel consueto incastro tra freddezza del dato e sottile trasfigurazione, Di Giugno organizza luci artificiali, dettagli diurni, apparizioni notturne, dischiudendo di ogni scena il potenziale quasi teatrale o letterario. Una sorta di “realismo magico”, come scrive Vincenzo Profeta nel suo breve testo di presentazione, mentre “L’azione fotografica si perde in una foresta di cemento, dove gli uomini scappano su elettrobiciclette da riders, lasciando dietro scie di trap e incubi sociali di cibo consegnato al volo al terziario avanzato”. Sono tutti frammenti piazzati con cura dinanzi all’obiettivo, oppure rubati in rapidità, poi ricomposti in un almanacco dei fantasmi e degli interstizi, dando voce ai protagonisti anonimi di una città invisibile: non scintillante, non performante, né isola, né nido, più banlieu che comodo salotto.

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L’allestimento e l’evento sonoro

Nello spazio delle Officine Bellotti le immagini prendono vita sulle pareti, distribuite lungo mensole d’acciaio, su più livelli e in formati differenti, secondo un intrigante display più volte sperimentato dall’artista e diventato ormai tratto distintivo. Intercambiabili, se si desidera: il visitatore può spostarle, sovrapporle, distanziarle, componendo e scomponendo un racconto che in fondo appartiene a ognuno, se ognuno porta dentro di sé il germe dell’alienazione e la vertigine della fauci metropolitane. Alcuni scatti satellite contornano queste composizioni orizzontali, spezzando il ritmo e aprendo piccoli spot di luce o di buio, per un allestimento che articola lo spazio in modo non scontato ed efficace.
Un vecchio sound system recuperato tra i rifiuti, ancora funzionante e restaurato dallo stesso Di Giugno con finiture in legno, è un perfetto ready made urbano piazzato nella stanza, utilizzato un pomeriggio di luglio per un live con un gruppo di giovanissimi freestyler palermitani: casse e microfoni improvvisando barre, a partire dalle immagini con il loro cumulo di suggestioni.



I soggetti di Alessandro Di Giugno, attraverso una Milano popolare

E proprio il rap e la trap sono ispirazioni che ritornano tra le foto, con i giovani poser agghindati di marchi, talento, conformismo, ambizione, nichilismo, felpe con i cappucci e cappellini Gucci, a volte nascosti dietro caschi o maschere come i Daft Punk, Liberato o Junior Kelly. E tra flash di gente comune nel viavai quotidiano, tra un presidio di studenti che protestano per il caroaffitti, installati con le tende nel parco di fronte al Politecnico, tra monumenti imbrattati di colore per le azioni di denuncia degli ambientalisti di Ultima Generazione, tra raduni in centro o in periferia per l’ennesimo evento politico, sportivo, ludico, mainstream o underground, tra bandiere anarchiche o arcobaleno, outfit di tendenza, dread lock, selfie di gruppo, pic-nic e persino una pistola, tornano le facce e le mani di quei lavoratori su due ruote, spesso stranieri, immortalati anche nel curioso rito delle noccioline: la frutta secca è benzina calorica da masticare durante i turni e le corse nelle fredde notti milanesi. Una galleria dell’autenticità popolare, oltre l’eden dorato di City Life o l’iconico landmark del Bosco Verticale, completata dalle immagini della folla in piazza accorsa per i funerali di Silvio Berlusconi.

Non sono riuscito ad amarti”, scrive Di Giugno nella sua dedica a Milano che accompagna la mostra. “Ero convinto di trovarti fatta, laccata, possibilista, mi sei sembrata periferia, come foresta”, e ammette: “Metti paura, sei territorio?”. Un “pizzino” di saluto, che sia un addio o un arrivederci, e quel punto di domanda che è cifra comune, crisi e fascinazione, mentre ci si interroga sul senso e le forme di una territorialità che è o dovrebbe essere politica, culturale, umana, sociale. Luogo di identità e di comunità, in cui perdersi per ritrovarsi.

Helga Marsala

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Artribune

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