Riflette ma non pensa
- Postato il 16 luglio 2025
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- Di Il Vostro Giornale
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“Perché l’occhio possa vedere sé stesso ha bisogno di uno specchio. Anche la coscienza ne ha bisogno. Noi vediamo e conosciamo noi stessi solo guardandoci negli altri”, è quanto sostiene lo scrittore catalano Joan Fuster. La conclusione espressa da Fuster è assolutamente condivisibile, siamo esseri relazionali, possiamo acquisire coscienza di noi solo attraverso il riflesso di noi stessi nello “specchio” offertoci dall’incontro con l’altro da noi, ma resta aperta la questione circa la reale possibilità di un incontro coscienziale che possa determinare qualche punto fermo. Una considerazione che mi sembra illuminante, in questo senso, è riconoscibile nel pensiero di Fernando Pessoa: “Non c’è specchio che ci rimandi a noi come persone viste dal di fuori, perché non c’è specchio che ci tiri fuori da noi stessi. Sarebbe stata necessaria un’altra anima, un altro punto di vista e un altro modo di pensare”. Non posso sapere a quale altra anima facesse riferimento Pessoa, credo, piuttosto, che il gioco di rimandi, costituito dall’intervento di un ulteriore attore nella dinamica gnoseologica dell’incontro con se stessi, possa essere paragonato a quanto accade nel momento in cui ci posizioniamo tra due specchi, il rinvio all’infinito della nostra immagine bifronte si arresta solo al limite della nostra capacità visiva, mentre prosegue all’infinito senza determinare nessuna possibile conclusione. Mi sembra evidente che la pretesa di una conoscenza solida di noi stessi non sia rinviabile a nessuno strumento, ancor meno alla presunta possibilità di oggettività di uno specchio, fisicamente presente o simbolicamente ipotizzato è lo stesso, già, perché lo specchio riflette ma non pensa e questo, paradossalmente, rende ancor più inaccessibile e incerto lo specchiamento.
Pablo Picasso poneva una questione che, nella sua prospettiva, presumo sottointendesse un’implicita risposta, ma che, a mio modo di vedere, apre a ulteriori e ancor più spiraliche considerazioni; il genio spagnolo si chiedeva: “Chi vede correttamente la figura umana? Il fotografo, lo specchio, o il pittore?”, intanto va detto che l’argomento è la figura, la forma, ma credo che Picasso volesse alludere a ciò che rende l’oggetto dell’osservazione il più prossimo possibile a se stesso. Sappiamo bene che il medesimo soggetto diviene altro a seconda dell’artista che lo incontra, che sia un fotografo o un pittore cambia di certo, ma nessuno dei due approcci può né vuole essere oggettivo, il ruolo emozionale e pensante dell’artista rimane imprescindibile e prepotentemente e orgogliosamente presente; diverso il caso di uno specchio, che non ha emozioni, che non pensa, che si limita impersonalmente a riflettere senza una personale partecipazione: questo rende ciò che torna al nostro occhio esattamente ciò che è? Intanto, mi sembra evidente, è necessario avere contezza profonda delle possibilità dell’occhio dell’osservatore e questo rimanda a un’ulteriore complessità della dinamica gnoseologica, ma è interessante notare che tendiamo a credere di vederci nello specchio per come siamo oggettivamente pur sapendo che l’immagine che ritorna ai nostri occhi ci inganna rovesciando la destra con la sinistra, cosa che non fa il pittore e ancora è diversa nella fotografia. Non è difficile verificare come la nostra gestualità, nell’immagine di noi nello specchio, assuma valori del tutto diversi proprio perché rovescia il contesto e lo stesso attore sulla scena, a questo punto ciò che potremmo definire come “effetto specchio”, il riconoscere noi stessi nell’incontro con l’altro, credo richieda l’approfondimento, al quale accennavo poco sopra, che rimanda alla necessaria consapevolezza preliminare circa le nostre capacità visive e di osservazione.
L’effetto specchio si intreccia intimamente con la dinamica della proiettività e dell’identificazione proiettiva: in psicologia i due fenomeni sono distinti pur riconoscendo l’intimo legame che li connette. Si intende per proiezione l’attribuzione ad altri di emozioni e pensieri che ci abitano ma tendiamo a rifiutare, mentre per identificazione proiettiva l’azione è biunivoca e genera una relazione nella quale entrambe i soggetti risultano condizionati dalla reciproca proiettività. Lasciamo agli specialisti le sfumature, credo sia esperienza comune, e che meglio aiuta questo argomentare, il fatto che la nostra mutevole pre condizione in qualsiasi momento relazionale influenzi l’intero contesto, così come lo stesso accade per l’altro protagonista della relazione. Ma, se l’esperienza di tutti può essere assunta come criterio d’approccio alla questione, diviene evidentemente improbabile sostenere la tesi che negli altri incontriamo solo e sempre noi stessi se non ci dotiamo di attenzione e pazienza nell’osservare i protagonisti dell’intero momento relazionale addirittura ancor prima del suo accadere. Per tornare alla presunta oggettività impersonale dello specchio, il fatto che rifletta ma non pensi sposta sul soggetto che vi si riflette l’intera responsabilità della più o meno inconsapevole manipolazione dell’immagine raccolta, insomma, riferendoci ancora all’allegoria appena tratteggiata, sarà fondamentale conoscere preliminarmente la qualità e la particolarità dell’occhio osservante, va da sé che l’atto gnoseologico si complica: tentare di incontrare se stesso attraverso il riflesso recepito dallo specchio conoscendo perfettamente le peculiarità preconcette del nostro occhio potrebbe rendere pleonastico l’intero agire, infatti saremmo già in possesso di informazioni formidabili su di noi nel momento stesso in cui conoscessimo i filtri e le distorsioni del nostro sguardo, ecco perché diventa tanto più complesso quanto affascinante rifletterci in uno specchio pensante.
Inevitabile che il nostro argomentare ammicchi all’idealismo di Fichte e in particolare al suo concetto esplicitato dal termine tedesco tathandlung, espressione che possiamo tradurre con: “il soggetto della relazione con l’altro è contemporaneamente attore e agito esattamente come l’altro da sé”. Questo ci riporta alla questione: l’altro è uno specchio anomalo poiché, nel momento in cui entra in rapporto con noi, non si limita depensatamente a rifletterci, ma si intride di noi e ci contagia di sé. La consapevolezza della complessità di un simile fenomeno richiede un’attenzione e una sensibilità degne di un artista, ecco perché è urgente ricordare a ognuno che possiede le qualità per essere idoneo al ruolo di “artista essere umano” e non ci si deve accontentare della banalizzazione di pensarci come una sorta di avatar di noi stessi riflesso nell’omologante e frenetica palude della virtualità. Il meccanismo del divenire ciò che il numero di osservatori decreta si sia riscrive, amplificandole, le errate convinzioni del concetto di oggettivo. Quando Galileo fondò la scienza moderna affermando “Misurate ciò che è misurabile e rendete misurabile ciò che non lo è” non credo avesse modo di immaginare quanto potesse divenire pervasivo il suo pensiero, il quale, utilissimo nella matematizzazione dei fenomeni fisici, diviene pericoloso se sommariamente impiegato alla complessità oltre fisica dell’essere umano. Lo “specchio anomalo” che siamo fa sì che divenga non solo riduttiva ma addirittura falsante la prospettiva della “matematizzazione”, se anche fosse possibile l’oggettivante misurazione del riflesso di chi “riflette ma non pensa”, sarebbe criminale tentare di depensare l’essere umano fino a ridurlo alla possibilità della sua misurazione. Non credo che la statistica, che gli algoritmi, utili se mezzi nelle mani dell’uomo pensante, possano conservare la medesima positività se trasformati nei tiranni dell’uomo reso mezzo nelle loro mani. Anche se la pseudo cultura algoritmica difficilmente potrà condividere un pensiero che vuole reputare antiquato, credo sia importante ricordare l’affermazione di Kant che possiamo leggere nella “Fondazione della metafisica dei costumi”: “Agisci in modo tale da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, e mai semplicemente come mezzo”.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.