Senza schemi: rileggere Pasolini con serietà. Non fu mai un conservatore
- Postato il 26 novembre 2025
- Antropologia Filosofica
- Di Paese Italia Press
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Roma, 26 nov. 2025 – Perché insistere su un Pasolini conservatore?
Non lo fu mai. Inutile insistere. Vediamo un po’, senza cedere alla retorica.
Dovremmo ormai discutere di un Pasolini senza retaggi, ovvero di un Pasolini senza reticenze. Siamo nel mezzo delle celebrazioni e ricordanze, ma rileggiamolo con profondità comparativa: tra luci e ombre, tra ciò che realmente ha dato sul piano innovativo e ciò che non ha afferrato anche in termini letterari; tra ciò che ha sfidato e ciò che rappresenta le sue – e le nostre – contraddizioni.
Rileggiamolo di prima mano, senza farci trascinare dalle “vulgate”.
Pasolini anti-moderno? Sì. Conservatore? No.
Una lettura antropologica non riguarda soltanto i concetti di progresso, borghesia o processo alla politica: è anche il suo tentativo di portare nel dibattito culturale italiano, in anni difficili e ideologicamente inquieti, figure grandiose come Pound ed Eliade attraverso il mito, e Nietzsche con la proposta del tragico greco di Eschilo, Sofocle, Euripide.
Fu oltre le avanguardie. Non amò Pavese, ma a Pavese deve molto: soprattutto la dimensione delle radici, l’essere paese e quel dialogare tragico che nasce dai Dialoghi con Leucò. In fondo Casarsa non era altro che il “paese” che in Pavese significa non essere soli, come ne La luna e i falò.
Fu un antipolitico? Sì, ma nel senso manniano delle Confessioni di un impostore. Tentò di riprendere il viaggio di Dante con la mimesis, ma restò sbalordito dalla grandiosità della Divina Commedia. Cercò di unire il Mediterraneo alla letteratura americana passando per la Magna Grecia. Un’intuizione che riprese proprio da Pavese, Vittorini, Alvaro e da Pound nell’incontro del 1967 e negli scritti del 1973. Cercò, ma non compì fino in fondo.
La letteratura, da Whitman a Eliot, passando per Hemingway, attraversò il suo viaggio. Ma il maestro, su questo terreno, era Pavese, che traduceva quegli scrittori. Pasolini cercò di rileggere il Mediterraneo di Paolo, ma fu un tentativo straziante: la modernità non resse e la sceneggiatura rimase incompiuta.
Modernità e tradizione furono i due poli attraverso cui misurò la caduta e insieme la vitalità del non conservatore. Contraddizioni non da poco.
Fu intellettuale? Certamente. Ma seppe andare oltre Gramsci, perché non divenne mai organico. Il suo essere “corsaro” ha il fascino di chi supera il deserto della democrazia per vivere il “terreno desolato” eliotiano della libertà.
E si pensi alla storia dell’uccisione del fratello Guido, partigiano non comunista della brigata Osoppo, trucidato dai comunisti della Garibaldi nell’eccidio di Porzûs: una vicenda di cui non si è parlato abbastanza, benché Pier Paolo vi sia tornato spesso con tragico dolore e inquieto disagio. Una storia terribile negli anni della Resistenza, in quel lembo di terra dominato da comunisti italiani e slavi.
Vado oltre, perché voglio soffermarmi – in una frammentazione di sintesi – sull’aspetto del rapporto Pound–Pasolini. Pound rappresenta infatti l’incrocio tra tradizione e rivoluzione in una cultura non conformista e non consociativa.
Quando Pasolini incontrò Ezra Pound erano anni inquieti. Eppure, nella sua volontà di potenza non filosofica, s’incuneava una curiosità vivissima: la volontà di leggere nell’arte la creatività dell’“uomo nuovo”. Nel 1968, nella stagione di Valle Giulia, dei poliziotti arrivati dal Sud e degli studenti “figli di papà”, Pasolini cercò l’incontro con il “fascista” e reazionario Pound.
Un incontro straordinario, ricordato due anni prima della morte di Pasolini e realizzato per la Rai.
A cinquant’anni dalla morte di Pound (1972) e a cento dalla nascita di Pasolini (1922), la poesia resta una comunione non tanto di linguaggi quanto di tessere poetiche e innovazioni sperimentali.
Pasolini rimane il critico di Passione e ideologia, libro che molto aiuta a comprendere la poesia contemporanea – pur con limitazioni – e che apre, comunque, stanze: da Pascoli a Penna, da Caproni al legame tra lingua e dialetto. Cercò di entrare nei “Cantos” pisani per metaforizzare una realtà poetica che si innerva nelle Ceneri di Gramsci o nella visione della poesia come “una rosa”. Tuttavia, comprese che la poesia è altro rispetto alla realtà.
Con Pound Pasolini ha in comune Dante.
Il Dante della Mimesis – viaggio dantesco mal riuscito – che però trova una struttura definita nel Pound dei Cantos, nella terra desolata eliotiana. Tra i due si esercita anche la funzione del mito.
La grecità di Pound è lo scavo di una Medea che, in Pasolini, diventa un viaggio tra luoghi di conchiglie che raccolgono le onde di un mare greco tra Mediterraneo e Adriatico. Pound è un maestro che, dagli Orienti, propone una metafisica poetica che tocca la storia e la destoricizza. Pasolini è altro: intuisce e si lascia guidare dalla percezione letteraria e antropologica del presente, trasformando ogni presente in contemporaneità. Eppure non riesce a “intrappolare” il mistero della parola nella metafisica della profezia come accade nei Cantos poundiani.
Restano due inquieti, due personaggi completamente liberi, non democratici: entrambi incapaci di caratterizzarsi nella democrazia, ma consapevoli del ruolo dei valori e delle identità culturali ancora vive nel 1968, l’anno del loro incontro.
Che cosa disse Pasolini di Pound? Soltanto un frammento:
«L’ideologia reazionaria di Pound è dovuta al suo background contadino… Egli ha voluto, fermamente e follemente voluto, restare dentro il mondo contadino… La sua ideologia non consiste in altro che nella venerazione dei valori del mondo contadino (rivelatigli attraverso la filosofia cinese, pragmatica e virtuosa)».
La venerazione dei valori e la nostalgia per la cultura contadina sono due capisaldi che Pasolini riconosce incontrando Pound. Il mondo contadino, senza familismo amorale, era il loro collante.
Pound, con una formazione conservatrice e lontana dall’americanismo che lo condannò, rimase dentro la tradizione della sua cultura. Pasolini, invece, cercò di capire la trasformazione dei modelli antropologici legati alla terra; ma del suo Friuli recuperò soprattutto il dialetto-lingua, mentre la cultura contadina divenne feticcio o maceria nel passaggio ai quartieri di Una vita violenta.
Pound, maestro da Omero a Eliot passando per Dante; Pasolini, intellettuale che alla fine comprese che ogni ideologia – compreso il suo gramscismo in dissolvenza – è una patina di illusioni che sanno vestirsi di finzioni.
Per entrambi la cultura è un modello antropologico in una visione in cui l’omologazione è l’incastro nella società dei consumi, laddove la sconfitta della tradizione conduce alla civiltà dei consumi.
Sono morti a tre anni di distanza. La storia, come sempre, è un’apologia di una realtà sacrificata da una verità metaforizzata.
Quando Pasolini incontrò Pound era un altro tempo, un altro mondo: o forse entrambi erano “altro” rispetto a ciò che sarebbe venuto dopo. Pasolini e Pound, senza omologazione, si collocano nel disegno della tradizione, tra linguaggi e destino delle culture.
Un incontro da ricordare senza dimenticare.
Ma dove stanno le reticenze?
Nel voler insistere su un Pasolini legato a un’ideologia precisa.
Così non è stato. Così non sono i suoi lavori.
Un eretico? Forse sì, con un mosaico di utopie.
Radicato nella tradizione di una cultura identitaria? Certamente sì.
Le sue posizioni su divorzio e aborto restano decisive per comprendere il Pasolini legato antropologicamente a un’identità, pur nello sperimentalismo delle culture.
Un Pasolini non icona stereotipata, ma uomo libero, vivo nelle contraddizioni.
Insomma: cerchiamo di leggere Pasolini senza reticenze, nelle sue contraddizioni tra eresia e utopia.
Ma non fu mai un conservatore. Mai.
….
Pierfranco Bruni è nato in Calabria. Archeologo, direttore del Ministero dei Beni Culturali e, dal 31 ottobre 2025, membro del CdA dei Musei e Parchi Archeologici di Melfi e Venosa, nominato dal Ministro della Cultura; presidente del Centro Studi “Francesco Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 è stato Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Incarichi in capo al Ministero della Cultura:
Presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;
Presidente Comitato Nazionale Celebrazioni centenario Manlio Sgalambro;
Segretario unico comunicazione del Comitato Nazionale Celebrazioni Eleonora Duse.
È inoltre presidente nazionale del progetto “Undulna Eleonora Duse” e presidente e coordinatore scientifico del progetto “Giacomo Casanova 300”.
Ha pubblicato libri di poesia, racconti e romanzi. Si è occupato di letteratura del Novecento con studi su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D’Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e sulle linee narrative e poetiche del Novecento che richiamano le eredità omeriche e le dimensioni del sacro.
Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e, tra l’altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo”, giunto alla terza edizione), nel quale esplora le matrici letterarie dei cantautori italiani e il rapporto tra linguaggio poetico e musica, tema che costituisce un modello di ricerca sul quale Bruni lavora da molti anni.
Studioso di civiltà mediterranee, Bruni unisce nella sua opera il rigore scientifico alla sensibilità umanistica, ponendo al centro della sua ricerca il dialogo tra le culture, la memoria storica e la bellezza come forma di identità.
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