Tsundoku non è un vizio, ma un’abitudine sempre più comune: il bisogno di comprare libri, accumularli e di rimandarne la lettura domani o tra anni
- Postato il 23 aprile 2025
- Cultura
- Di Il Fatto Quotidiano
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C’è un angolo, in ogni casa abitata da un lettore, dove si annidano pile di libri non letti. Possono essere ordinatamente impilati su un comodino, lasciati in bilico sul bordo di una scrivania, stipati in scaffali che implorano pietà o sparsi nei punti più impensabili della casa. Alcuni sono ancora incellofanati, altri portano i segni di una lettura mai iniziata: la copertina sfiorata con curiosità, l’indice consultato di sfuggita, magari una dedica scritta tempo fa. Ed è qui che prende forma lo tsundoku: non un vizio, ma un’abitudine sempre più comune.
Il termine arriva dal Giappone e unisce tre parole: tsunde (accumulare), oku (mettere da parte), doku (leggere). Ma più che una semplice descrizione di comportamento, racconta un certo tipo di rapporto con i libri. Accumularli non significa dimenticarli, né rinunciare a leggerli: vuol dire lasciarli lì, in attesa del momento giusto. Che sia domani, tra un mese o tra anni. Lo tsundoku, in questo senso, non è solo procrastinazione. È una forma di progettualità a lungo termine. Un modo per dire: “Adesso non è il momento, ma lo sarà”. E in un’epoca dove tutto è misurato, schedulato, ottimizzato, lasciare qualcosa in sospeso può essere un atto di libertà. Una forma di fiducia nel futuro.
Chi lo pratica – e sono molti, specie tra chi si informa, chi è cresciuto tra librerie e chi bazzica il BookTok – spesso compra libri per istinto: la copertina, il titolo, l’odore della carta. È un gesto impulsivo, ma carico di senso. Ogni acquisto è una promessa. Spesso le motivazioni si intrecciano: c’è chi vuole restare aggiornato sulle nuove uscite, chi non vuole “perdersi” il libro di cui tutti parlano, chi cerca conforto nelle parole di un autore familiare. C’è chi compra per accumulare sapere potenziale, chi colleziona prime edizioni, chi prende appunti solo sfogliando. In tutti i casi, lo tsundoku racconta un bisogno: quello di esplorare. Di avere a portata di mano mondi alternativi.
Eppure, l’effetto può essere ambivalente. La pila cresce più del tempo disponibile. A volte diventa un totem della frustrazione: un ricordo quotidiano di ciò che non si riesce a fare. La pressione a “stare al passo” – amplificata dai social – può trasformare lo tsundoku in ansia. Ma non è questo il suo senso originario. Per la maggior parte dei lettori, non leggere subito un libro non significa non leggerlo mai. Significa rimandare con consapevolezza. La promessa resta. È solo posticipata.
C’è poi un altro dato da considerare. In Italia solo il 15,2% delle persone legge almeno un libro al mese. In questo panorama, l’atto stesso di continuare a comprare libri – anche senza leggerli subito – rappresenta un segnale. Non di consumo fine a se stesso, ma di tenuta culturale. Anche perché, psicologicamente, acquistare un libro attiva le stesse aree cerebrali del piacere e della motivazione. È una piccola gratificazione che spesso ha poco a che fare con la produttività.
Più che un accumulo inutile, la pila dei non letti, secondo i giapponesi, è una riserva emotiva. Ogni libro messo da parte oggi potrebbe essere quello giusto tra sei mesi, durante una crisi, un trasloco, un momento di noia o una pausa inaspettata. Non serve pianificare tutto. A volte è il libro che trova il lettore, non il contrario. Per questo, forse, è il caso di smettere di pensare allo tsundoku come a un difetto.
Non serve sforzarsi di “smaltire” la pila. Meglio tenerla lì, visibile, in ordine sparso, come un archivio di futuri possibili.
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