Yannis Yfandìs, non diventare grande mai (Traduzione di Massimiliano Damaggio)

  • Postato il 13 giugno 2025
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Yannis Yfandìs (1949), fra i maggiori poeti greci contemporanei, si distingue per l’assoluta originalità e unicità del suo sguardo, ancora oggi capace, nonostante la povertà immaginifica della modernità, di risuonare in mito e favola. Una scrittura non semplice me lievissima, che della Natura sa echeggiare il silenzio, il ronzio dell’ape, il ticchettare della pioggia sulla foglia. La “leggerezza” in scrittura, forse fra le cose più difficili da raggiungere, difficile quanto scrivere poesie d’amore.

Yfandìs non è altro, in fondo, che un eccezionale poeta dell’amore, per la sua capacità di guardare ad occhi spalancati, come un bambino, l’incanto del mondo.

M. D.

***

Scritto a meraviglia

La macchina da scrivere sul tavolo
sotto il gelso
È la prima volta che scrivo in una stanza
tanto grande, le stelle come tetto, intorno le colline, boschi, strade, costruzioni di formiche…
Che potrei mai scrivere visto che il Cosmo
sopra il Cosmo
è scritto a meraviglia

*

La povertà

La povertà mi spinge verso la redenzione

“Ti basta” dice “una piccola capanna sul monte
o, più giustamente, d’abitare
in un incavo dell’albero

Di libri ti bastano poesie
e favole

E forse neanche quelle

Ti sta meglio una biblioteca
tutta vuota

L’ideale sarebbe però
che il suo legno ritornasse alla foresta
prima che si può”.

*

I selvatici

Gli addomesticati non vivono senza le cure dell’uomo.
Di recinti hanno bisogno, di gabbie, vasi, irrigazione
di cibo, scuola, d’esercizio.
Ma i selvatici non hanno bisogno di nessuno.

Il vento accumula foglie nei solchi fra le rocce perché si sciolgano
si facciano concime.
Ma i gigli sono spuntati fuori del solco
– per la paura di rimanere chiusi
– per la paura di rimanere chiusi nel vaso d’una roccia
e diventare addomesticati.
Cresciuti là fuori, sul margine, tu li diresti
piovuti dallo scudo del Cielo.

Gli addomesticati non vivono senza le cure dell’uomo.
Perfino gli dei non vivono senza le cure dell’uomo.

Siate selvatiche, mie poesie (oh se stessi!)
come i gigli e le stelle, le Pleiadi e il Procione;
come il selvatico universo che non vuole
le cure di nessuno.

*

Ciottoli

Non fioriscono né appassiscono. Semi di pietra.
Sono secchi, sono poveri, sono insipidi, ma ecco:
Le dita fiorite del mare li hanno sfiorati
e splendono.

*

Anche oggi son venute le farfalle

Anche oggi son venute le farfalle.
E la cavalletta verde (grande quanto un’unghia)
e il suo cappellino (un triangolo con gli occhi).
E quella gigantesca con un torace come il cavallo verde.
È venuto anche il riccio, lavato e pettinato, i peli che parevano gli aghi del porcospino.
È venuta anche la nera e lucida formica, operaio delle spire
della bardana, umile
trasportatrice di fantastici depositi
del reame dei semi.
È venuta anche la moschina sua sorella
con la sua cintura gialla… Oh,
ragazzi,
guardate qua,
guardate, ah… Me lo scordavo…
È venuto anche Dio, nascosto sotto il guscio di una tartaruga.
(Si mangiava l’erba lungo il muro di casa
e ho pensato
per un attimo
che fosse quell’aggeggio che il comune ci ha mandato
per tagliare il prato). Oh, sì
qui viene spesso Dio nascosto in migliaia di visibili ma anche di invisibili e infinite forme.
Viene qui
perché
solo qui
nello smisurato “non so” che esiste così com’è,
nel vuoto della mia mente entra tutt’intero,
si sente libero nel niente che io sono.
Nel niente? Ma sì, anche oggi son venuti
qui fuori casa nostra, in questo cortile,
in questo transito del Cosmo
verso il Cosmo.

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Il Fatto Quotidiano

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