Griefbot, l’illusione dell’eternità: così l’IA promette di ridarci voce e volto dei morti

  • Postato il 4 ottobre 2025
  • Di Panorama
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Il dono più toccante che ci ha fatto l’Intelligenza artificiale è l’Immortalità artificiale. O per essere più precisi la Resurrezione artificiale. Di cosa si tratta? Di quei prodigiosi griefbot, «dove ogni dramma è un falso» che ti permettono per citare Caruso di Lucio Dalla «con un po’ di trucco e con la mimica», di ritrovare la voce, il volto, l’espressione del defunto; un collage retroattivo, tecnologicamente avanzato che consente di conversare col morto e riascoltare le sue parole, e le cose che lui diceva riversate oggi. Ma tutto è fiction, frutto di algoritmi, che in questo caso potremmo definire nostalgoritmi, evocando il ritmo dolce e dolente della nostalgia. Nella rielaborazione creativa del lutto, i più infervorati sono i cinesi, accompagnati dai coreani, e in Occidente gli statunitensi, che già avevano una piccola storia di morti parlanti e di lutti animati, per così dire. Ricordo da ragazzino un reportage del grande inviato Virgilio Lilli, poi raccolto in un libro, Penna vagabonda, sui prodigi cosmetici, sonori e fotografici che negli Usa rendevano il morto ancora vivo, nel fiorente business delle pompe funebri. Ma la tecnologia ha fatto passi da gigante ed è possibile conversare con loro, e perfino collegarsi da remoto, ma molto remoto, illudendosi che la lontananza sia spaziale ma non temporale, e che il defunto da qualche parte – in cielo, in terra, in qualche luogo – sia ancora presente e dialogante, estinto e distante.

Ho letto anche di studiosi di filosofia e di psicologia che si occupano di Aldilà al tempo di ChatGpt. Il desiderio umano di vivere per sempre, non estinguersi del tutto, non è più affidato alla fede, alla religione o alla metafisica, ma alla tecnica; con la precisa consapevolezza, direi leopardiana, che si tratta di illusioni, e anche di illusionismi, quasi una forma di superstizione, di incantesimo magico benché ottenuto per via tecno-scientifica. Non si tratta di una strategia di rielaborazione del lutto per «addomesticare la morte», come diceva Philip Ariés; si resta ancora nell’ambito del rifiuto della morte, nella sua rimozione: la differenza è che anziché l’oblio si adotta la simulazione di vita, col suo avatar, la sua icona, la sua voce registrata e manipolata dall’Intelligenza artificiale.

Nel mio recente C’era una volta il Sud suggerivo una poetica e nostalgica operazione pratica per ridare vita e voce agli assenti attraverso le loro fotografie. Provate a dar voce alle foto; immaginate che siano touch screen, pigiate la vecchia foto al centro e chiudete gli occhi: prenderà vita un mondo, risalirà una storia, una vita insieme ad altre; si rianimerà una situazione, sentirete le loro voci, li rivedrete in movimento. Si rianimano nella mente le mute icone degli assenti, torna il sonoro ai loro volti silenti, si muovono le loro immagini fisse. Accadrà il miracolo del ritorno, tramite l’immaginazione che feconda la memoria. L’immaginazione, insegnava Vico, è sempre incrocio di fantasia e memoria. La creatività scompone e ricompone, in modo inedito e sorprendente, i pezzi del passato, stabilendo nuove relazioni e connessioni tra diverse realtà. La stazione di partenza e d’arrivo del viaggio favoloso sarà la fotografia. Anche quella è una consapevole illusione, in cui c’è più fantasia che tecnologia.

Non immaginavo che questa pratica artigianale, di minima magia e di consapevole incantesimo, potesse diventare una pratica così diffusa in alcune popolazioni, tecnologicamente avanzate, del pianeta. Lo smartphone oggi diventa non solo la scatola nera della nostra vita presente, ma anche il tabernacolo e il reliquiario del nostro passato più caro. Il rimedio di una volta era ricordare i morti nel giorno della loro morte o della loro nascita, far dire loro una messa, andare a trovarli al cimitero e lasciare sulla loro tomba un fiore, conservare la loro immagine o perfino una ciocca dei loro capelli nel portafogli, avere un piccolo altarino domestico delle immagini di santi e cari defunti, nel ruolo di protettori della casa.

Il simbolo esteriore di quel lutto durevole era un bottone nero sull’asola di una giacca, la fascia nera al braccio, il vestito nero, e perfino la veletta. Ma nell’epoca della veloce rimozione della morte, degradata a scomparsa – come se la vita sia solo apparire e apparenza – è accaduto che quel lutto rimosso dagli abiti sia rimasto inchiodato nella mente e nell’anima. Ciò che non è stato rielaborato ed espresso, ciò che non ha avuto una catarsi e un vero cordoglio, resta lì come un cibo indigerito nella nostra anima, un’ombra spettrale che ci accompagna e si tramuta in angoscia, depressione, tristezza. Per riparare a questo buco nero della nostra esistenza, restando però sul terreno di una società che ha voltato le spalle all’eterno, al sacro, alla fede – o che non ha mai creduto nell’immortalità personale – si cerca un escamotage tecnologico, l’uso magico e combinato del registratore, dell’immagine cine-fotografica e del sonoro che insieme riproducono il sembiante, l’ombra di una vita e di una voce vera, nell’illusione che perduri oltre sé stessa, almeno per noi.

Nulla in contrario a chi ne fa ricorso; solo il sommesso consiglio a non dimenticare mai la differenza tra il vero e il falso, tra il reale e il fittizio, tra il vivo e il morto; e la lucida coscienza di una pratica tenera ma illusorio, vivendo l’incantesimo col disincanto di un gioco. Un tempo questi prodigi non erano prodotti dalla tecnologia e si chiamavano fuochi fatui o corpi santi.

Autore
Panorama

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