Il Nobel per la pace a María Corina Machado è anche un invito all’America Latina a interrogarsi

  • Postato il 10 ottobre 2025
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La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo: María Corina Machado, una delle figure più visibili dell’opposizione venezuelana, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace 2025. Con questo riconoscimento diventa la seconda donna latinoamericana a riceverlo, dopo Rigoberta Menchú nel 1992, e la seconda persona venezuelana a ottenere un Nobel, dopo Baruj Benacerraf, insignito del Nobel per la Medicina nel 1980. Un premio che non solo celebra la sua traiettoria personale, ma restituisce al Venezuela un ruolo centrale sulla scena globale, oltre l’immagine di crisi e fratture che spesso lo accompagna.

Ingegnere industriale di formazione, Machado ha fondato nel 2002 l’organizzazione Súmate, dedicata alla difesa della trasparenza elettorale. Da allora la sua carriera è stata segnata da scontri e tensioni con il potere: eletta deputata all’Assemblea Nazionale (celebre il suo scontro con Hugo Chávez), è stata successivamente dichiarata ineleggibile, perseguitata da procedimenti giudiziari e indicata come “nemico interno” dello Stato. Nel 2023, nonostante il divieto politico del regime di Maduro, è stata scelta con un consenso schiacciante nelle primarie dell’opposizione, consolidandosi come simbolo di resistenza in un paese in cui la democrazia appare sempre più fragile.

Il Comitato Norvegese ha spiegato la decisione richiamando la sua difesa della democrazia, della nonviolenza e dei diritti umani di fronte alla repressione: un simbolo di speranza per milioni di venezuelani che da oltre vent’anni vivono il deterioramento delle istituzioni, la migrazione forzata e la restrizione delle libertà civili. Cittadini e cittadine che oggi vedono in questo riconoscimento le loro storie, le loro vicissitudini, il loro travaglio. In un contesto internazionale in cui il genocidio di Gaza e la guerra di Putin all’Ucraina monopolizzano l’attenzione, il premio riporta il Venezuela e l’America Latina al centro del dibattito sulle necessarie e possibili transizioni democratiche e pacifiche nel chiamato Sud globale.

Come ogni figura politica di rilievo, Machado divide l’opinione pubblica e polarizza le masse. Per alcuni è la voce del coraggio e della determinazione, per altri rappresenta un approccio elitario o distante dai settori più vulnerabili della popolazione, il volto di una destra molto vicina ai repubblicani statunitensi con tutte le implicazioni che questo porta con sé. In questo senso il premio Nobel appena ricevuto non scioglie queste possibili contraddizioni, ma le ricolloca, aprendo una riflessione su cosa significhi difendere la democrazia in contesti autoritari e sul ruolo crescente delle donne latinoamericane in questa lotta.

Il parallelo con Rigoberta Menchú è inevitabile. Se nel 1992 il premio andava a una donna indigena impegnata per la giustizia sociale in Centroamerica, oggi viene assegnato a una venezuelana che ha incarnato la resistenza a un sistema politico accentrato e repressivo. E il richiamo a Baruj Benacerraf, premiato in campo scientifico, sottolinea come il Venezuela sia in grado di offrire al mondo figure di eccellenza e resilienza in ambiti diversissimi, dalla medicina alla politica.

Il Nobel per la Pace a Machado non va quindi letto come un semplice premio individuale ma anche come un invito all’America Latina a interrogarsi sulle proprie fragilità democratiche in un momento in cui i discorsi autoritari riemergono con forza e le disuguaglianze strutturali continuano a segnare la vita quotidiana di milioni di persone. È uno specchio che riflette una società colpita da crisi profonde, ma capace di esprimere leadership che parlano al mondo e che ricordano che la democrazia non è un ideale astratto, bensì una pratica costante che richiede rischi, sacrifici e coraggio.

Il 2025 verrà probabilmente ricordato come l’anno in cui il Venezuela è tornato sulle mappe internazionali non per l’iperinflazione, né per l’esodo migratorio, né per la repressione delle proteste o per l’operazione navale Usa (di dubbia legittimità nel diritto internazionale), ma per il riconoscimento a una donna che ha perseverato nella difesa dei diritti e delle libertà civili e sociali. Un volto che da oggi riflette quello di milioni di persone convinte che, nonostante tutto, la democrazia resti l’unica strada possibile verso la dignità e la giustizia.

E, naturalmente, la decisione non lascia indifferenti i leader politici regionali e internazionali. Scontento Trump (che forse un po’ ci sperava), scontento Petro (aspirante a leader mondiale), ma soprattutto Nicolás Maduro, per il quale diventa sempre più arduo sostenere la narrativa con cui da anni si autorappresenta come “martire” assediato dalle mani predatorie dell’impero nordamericano. Una costruzione discorsiva che ignora deliberatamente l’esodo forzato di milioni di venezuelani, il collasso economico, il radicamento del narcotraffico, la corruzione sistemica, la repressione politica e le torture documentate da organismi internazionali.

Il Nobel a Machado, in questo senso, non è soltanto un riconoscimento individuale, ma una frattura simbolica che indebolisce la legittimità narrativa del regime e ne rafforza la percezione come potere isolato, incapace di occultare le proprie responsabilità davanti alla comunità globale.

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Il Fatto Quotidiano

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