A Milano tutta l’umanità della fotografia della grande Dorothea Lange

  • Postato il 1 agosto 2025
  • Fotografia
  • Di Artribune
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Una reporter e una ritrattista. Una donna impegnata nel suo lavoro di rigorosa documentazione dei fatti storico-sociali e un’osservatrice di acuta sensibilità e dolcezza. A tal punto da trasformare il dolore e la preoccupazione di una madre migrante nel volto di una Madonna contemporanea. È questa Dorothea Lange (Hoboken, 1895 – San Francisco, 1965): la fotografa al centro della programmazione estiva del Museo Diocesano di Milano per il 2025. Come è ormai piacevole abitudine per i milanesi, torna la proposta espositiva del Museo rivolta al grande pubblico, visitabile anche con ingresso serale. Un motivo in più per farsi incuriosire da questa figura chiave del panorama fotografico americano, capace di trasmettere un messaggio che va ben oltre il mero apprezzamento estetico. Dorothea Lange non è solo un’artista. È una testimone. Una reporter al servizio dell’umanità – dell’umanità più fragile, semplice ed emarginata – che trova finalmente il modo di far sentire la propria voce attraverso le immagini. Anche a distanza di secoli. A noi, oggi, i suoi scatti parlano ancora e lo fanno indirizzando la nostra attenzione a problemi sociali, economici e ambientali che – seppur diversi – hanno pari peso e rilevanza per chi ne è coinvolto.

Dorothea Lange: le ragioni di una mostra

Perché la fotografia al Diocesano? Perché continuare con mostre lontane dalla collezione permanente, naturalmente incline al sacro e allo spirituale? Risponde la Direttrice, Nadia Righi, ma lo si realizza anche da sé, lasciandosi alle spalle gli scatti di Dorothea Lange. Fotografi come lei sono persone in grado di suscitare riflessioni profonde. Scuotono il senso critico dell’individuo e lo spingono a guardare in faccia la realtà. A pensare. A ragionare sulla situazione umana contemporanea intorno al pianeta, stimolando una compassione che attivi il nostro agire. Per tutta la vita, da quando si rende conto che la realtà sociale americana non corrisponde più ai ritratti di persone ben vestite e pettinate che scatta nel suo studio, decide di uscire fuori. Abbandona i servizi commerciali e si fa reporter di vita vera. Di gente che soffre dopo aver perso tutto con il crollo di Wall Street e la Grande Depressione. E questo è solo l’inizio della sua storia di narratrice di dignità, anche laddove regna la miseria.

Dorothea Lange, Madre migrante, 1936. The New York Public Library - Library of Congress Prints and Photographs Division Washington
Dorothea Lange, Madre migrante, 1936. The New York Public Library – Library of Congress Prints and Photographs Division Washington

Migrant Mother. Un’icona di umanità

Il nome di Dorothea Lange è eternamente legato al suo capolavoro. Un capolavoro non tanto in senso estetico – sebbene la costruzione scenica sia di indiscusso fascino – quanto in termini di umanità. Migrant Mother non è un bel ritratto di una donna in bianco e nero. È una metafora senza tempo, che raffigura la stanchezza, la preoccupazione e l’amore di una madre che ha sette figli sulle spalle – stravolti ma immersi nella spensieratezza infantile – a cui non sa come e se potrà assicurare un futuro. L’immagine risale ai tempi in cui Dorothea è inviata dalla Farm Security Administration – programma nato per promuovere le politiche del New Deal – nelle piantagioni del Sud, dove regnano povertà e segregazione. Tra i contadini impiegati nei campi di piselli, la fotografa ritrae questa donna, facendone una Madonna contemporanea. Una Madre dal significato universale, studiata attentamente nella composizione, che ricorda le icone rinascimentali.

La fotografia di Dorothea Lange

Il punto di vista della fotografia di Dorothea Lange è un tratto chiave del suo lavoro e ne evidenzia il valore sociale e la sensibilità rispettosa che mai ha fatto mancare ai suoi soggetti. In questo senso, parte da una posizione di vantaggio, di parità nei confronti dei deboli, per il suo essere invalida fin da piccola. Fin da quando è colpita dalla poliomielite, che le causa danni permanenti a una gamba. Tuttavia, l’ostacolo si trasforma in un’opportunità, che la porta a ricercare inquadrature inusuali, che esaltano i protagonisti. Spesso la si vede arrampicata sul tetto di un’automobile, intenta a cogliere una scena dal basso. Oppure sorprendendo le persone nei loro gesti quotidiani. Forse sofferenti, ma indiscutibilmente umane e dignitose. Signore e signori malgrado la miseria. Consapevole delle sue stesse fragilità, mentre scatta Dorothea Lange si pone allo stesso piano dei suoi soggetti. E con questo spirito racconta visivamente quello che accade nell’America del suo tempo. La segregazione traspare nelle composizioni di luoghi e persone, l’automobile – mito del capitalismo – passa dall’essere mezzo di fuga e di speranza a una lapide nel cimitero desertico. Quando i soldi per la benzina finiscono, i migranti sono costretti ad andare a piedi; pur in tutta questa miseria, la dignità rimane una costante che la fotografa non manca di sottolienare. A completare ogni immagine c’è una lunga didascalia – riproposta in originale in mostra – scritta con intento documentaristico. Frutto di un lavoro a quattro mani con Paul Schuster Taylor: economista progressista americano che diventerà anche suo marito.

La mostra di Dorothea Lange al Museo Diocesano di Milano

Il percorso espositivo è ordinato in senso cronologico, restituendo al pubblico le tappe della fotografia di Lange che testimoniano il susseguirsi della storia americana, dal crollo di Wall Street alla reazione del Governo all’attacco giapponese di Pearl Harbor.

La povertà urbana e contadina degli Anni Trenta

Ad aprire la mostra sono i primi scatti urbani sull’improvvisa povertà in cui versano i cittadini colpiti dalla Grande Depressione. Poi ci si sposta nelle campagne – o in quel che ne resta – dove Lange è inviata dalle autorità federali a documentare la situazione attuale. È il risvolto delle coltivazioni intensive, che negli anni precedenti avevano sfruttato a tal punto le terre da scatenare una sorta di “reazione”, incrementata da un lungo periodo siccitoso. Si parla del fenomeno delle Dust Bowl: tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti provocando una fortissima carestia. Nelle foto le case paiono tombe egizie che spuntano dalla terra. Le persone assumono quasi i tratti di coraggiosi esploratori. Ma la realtà è diversa.

La segregazione e le prescrizioni giapponesi

Si continua sulla scia della segregazione, affrontata sempre con grande senso estetico e, talvolta, ironico. Nulla è lasciato al caso: le frasi sui cartelloni pubblicitari hanno un senso ben preciso. La critica alle disparità è sottile e brillante, tanto da provocare in alcuni casi anche la censura. In ultimo, Dorothea Lange dimostra il suo talento nella trattazione dei risvolti dell’attacco a Pearl Harbor da parte dei Giapponesi.  Una reazione radicale e ingiustificata, quella del Governo americano, che introduce obblighi e misure severe, a danno di quelli che, a tutti gli effetti, erano fino a un minuto prima semplicissimi cittadini statunitensi. I giapponesi sono dunque costretti ad abbandonare le loro case, a chiudere i propri negozi e radunarsi in centri di controllo. La fotografa documenta queste ingiustizie sottolineando la loro appartenenza al paese: si vestono allo stesso modo, leggono gli stessi fumetti e giornali. Sono bambini e anziani indifesi, eppure c’è chi li paragona a spie.

Emma Sedini

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Artribune

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