Ansia da conflitto: come sopravvivere alla paura della guerra con la terapia di gruppo. Parliamone

  • Postato il 21 maggio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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C’è una guerra che ci arriva negli occhi ogni giorno.
Una guerra che, anche se lontana, sembra vicina.
E ci entra dentro. Senza chiedere permesso.

Gaza, Ucraina, Sudan. Le notizie scorrono, le immagini restano. Bambini sotto le macerie, ambulanze colpite, ospedali evacuati. Ogni giorno, un frammento di orrore. Ma cosa succede dentro di noi mentre tutto questo accade fuori? L’ansia da conflitto si accende veloce.

È la paura che muove l’ansia, segnala di lottare o fuggire. È un meccanismo antico. Biologico. Da sempre, il nostro cervello tiene in funzione le sue “sentinelle”. Una di loro si chiama amigdala: è come una guardia primitiva. Al minimo rumore sospetto, suona l’allarme. Fa partire l’adrenalina, attiva cuore, respiro, muscoli. Non pensa. Scatta. Ci salva quando il pericolo è reale, ma può farci vedere minacce ovunque. Anche quando la guerra è solo nello schermo.

Il cervello, infatti, a volte non distingue tra un pericolo reale e uno evocato. Basta un’immagine, una frase, un video — e il corpo reagisce come se fossimo nel mezzo dell’attacco. Siamo in allerta costante. Ma senza possibilità di agire.

A chi pensa che non si possa paragonare il trauma di chi vive dentro la guerra con chi la osserva da lontano, dico: è vero. È vero: l’esperienza diretta è devastante. Ma il trauma non è solo una condizione esterna. È una ferita interna. Due persone possono vivere lo stesso evento: una lo supera, l’altra si spezza. Non conta solo cosa accade, ma come lo viviamo. Come ci insegna la psicotraumatologia, il trauma non è l’evento in sé, ma la rottura delle connessioni interne e sociali. È l’incapacità di dare senso, di contenere, di nominare.

Secondo l’ICD-11 (OMS), è la risposta soggettiva che definisce il trauma, non la gravità oggettiva. Ma dalla frattura può nascere anche una forma di crescita. Si chiama Post-Traumatic Growth: è quella forza che alcune persone scoprono dopo aver attraversato l’oscurità. Un nuovo significato, una connessione più profonda con sé e con gli altri. E qui entra in gioco il gruppo.

La terapia di gruppo: pensare insieme, guarire insieme

La terapia di gruppo non è solo uno spazio terapeutico. È un luogo di “resistenza umana”.

Il gruppo crea pensiero collettivo. Riattiva la corteccia prefrontale, la parte del cervello che riflette, comprende, modula. È come far entrare in scena un direttore d’orchestra che calma i tamburi impazziti dell’ansia. Se l’amigdala è l’allarme, la corteccia prefrontale è la voce che dice: “Aspetta un attimo. Respira. Guarda meglio.”

La scienza lo conferma: uno studio pubblicato su MDPI (Multidisciplinary Digital Publishing Institute, 2024) mostra che la terapia di gruppo può ridurre l’ansia fino al 40%, abbassare i livelli di stress e attivare strategie di coping più efficaci. Le parole non curano tutto, ma alleggeriscono. E condividere aiuta a non sentirsi soli.

Nel mio lavoro clinico lo vedo ogni giorno. Chi partecipa alle terapie di gruppo mi dice che sta meglio. Che non si sente più impotente. Trasformiamo insieme la paura in possibilità. L’ansia in parola. Il dolore in gesto.

Il nostro è un gruppo contro la guerra

Il 21 maggio alle ore 20,30 guiderò una terapia di gruppo dalla Palestina, con i colleghi di Fondazione Soleterre. Lo faremo nel cuore di un territorio che da troppo tempo non conosce tregua. Daremo un nome alla paura, per non farci divorare da lei.

Ogni settimana tengo un gruppo online.
Siamo partiti in 15. Ora siamo in 70.
Scrivetemi. Se ci sono posti, siete i benvenuti.

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