Beni confiscati, i punti critici del nuovo dl Sicurezza e i paragoni con l’estero
- Postato il 24 aprile 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il Decreto-Legge 11 aprile 2025, n. 48, entrato in vigore il 12 aprile, detto “decreto Sicurezza“, interviene con forza su un terreno normativo tra i più sensibili del diritto interno, quello della gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, modificando in modo rilevante il Codice antimafia (D.lgs. 159/2011). L’intervento, accolto con favore in molte sedi istituzionali e operative, si inserisce in un contesto stratificato di osservazioni critiche. Eppure, proprio nella sua ambizione di razionalizzare e rendere più efficiente il sistema, la nuova disciplina rischia, in alcune sue parti, di compromettere l’obiettivo costituzionalmente orientato della restituzione sociale e collettiva dei patrimoni illeciti, rivelando tensioni normative, aporie operative e debolezze sistemiche che meriterebbero attenzione più profonda.
Tra le principali innovazioni, si segnala l’estensione da dieci a trenta giorni del termine per proporre impugnazione dei provvedimenti personali, una misura coerente con i principi di effettività delle garanzie difensive e con i precedenti della Corte costituzionale. Si tratta però di una modifica limitata alla fase personale del procedimento di prevenzione, che non tocca le ben più problematiche dinamiche contenziose sul versante reale, dove i beni sono spesso oggetto di plurimi provvedimenti, conflitti tra organi giurisdizionali, e tempi di durata incompatibili con le esigenze economiche delle aziende sottoposte a sequestro.
Ancora più rilevante è l’introduzione dell’obbligo di verifica tecnico-urbanistica degli immobili confiscati da parte dell’amministratore giudiziario, con l’effetto – in caso di abusi edilizi insanabili – della demolizione del bene e dell’acquisizione dell’area al patrimonio comunale. Se da un lato tale disposizione rafforza la coerenza tra legalità urbanistica e legalità patrimoniale, dall’altro essa sembra sottovalutare la complessità urbanistica di molte zone ad alta densità mafiosa, dove la regolarità edilizia è storicamente compromessa e dove le demolizioni rischiano di impoverire irreversibilmente il patrimonio pubblico potenzialmente destinabile a finalità sociali.
In prospettiva comparata, vale la pena ricordare che il sistema spagnolo della reutilización social de los bienes decomisados, pur non disponendo di un corpus organico pari al nostro Codice antimafia, enfatizza fortemente l’adattamento e la riconversione dei beni a scopo collettivo, anche mediante deroghe procedurali e partnership con enti del terzo settore per il recupero funzionale. In Francia, invece, la Agence de gestion et de recouvrement des avoirs saisis et confisqués (AGRASC) promuove progetti di restituzione controllata in chiave educativa, agricola e residenziale, proprio nei territori più esposti alla marginalità, evitando di legare il destino del bene a una valutazione meramente tecnica di conformità edilizia. La demolizione sistematica, in Italia, potrebbe dunque rappresentare un arretramento sul piano della giustizia riparativa.
Simile riflessione si impone in merito alla cancellazione automatica delle imprese confiscate ritenute “vuote” o “non sostenibili”. Se è vero che molte di esse sono meri gusci societari o veicoli fittizi per operazioni illecite, è altrettanto vero che in molti casi la crisi d’impresa è effetto diretto dell’incertezza gestionale prodotta dal sequestro, della mancanza di liquidità e della scarsa tempestività dell’azione statale. Un meccanismo di cancellazione automatica, senza un piano industriale o un’analisi ex ante delle opportunità di rilancio, può generare effetti collaterali gravi in termini occupazionali e sociali, in aperta contraddizione con la finalità solidaristica della confisca prevista dall’art. 48 del D.lgs. 159/2011.
Ancora una volta, l’esperienza comparata offre spunti di riflessione: in Germania, i Länder che sperimentano modelli di recupero aziendale sotto sequestro agiscono con fondi regionali di sostegno e affiancano alle imprese soggetti con competenze manageriali e finanziarie, in una logica di public-private partnership capace di attutire l’impatto economico del sequestro. L’Italia, in assenza di un fondo nazionale realmente operativo per il rilancio produttivo, rischia di limitarsi a constatare l’insostenibilità di ciò che non è stato aiutato a sopravvivere.
Rilevante, e certamente positiva, è infine la previsione di un regolamento interministeriale per la liquidazione dei compensi ai coadiutori, misura attesa da anni che mira a definire parametri equi e trasparenti. Tuttavia, anche su questo fronte, la norma resta monca: nulla si dice sulle modalità di valutazione dell’efficienza della gestione, sulla rendicontazione in tempo reale, sull’indipendenza dei coadiutori da interessi territoriali, su come vengono selezionati e sulle garanzie di rotazione degli incarichi. Il rischio, già rilevato in passato da inchieste giornalistiche e rilievi della Corte dei conti, è che si consolidi un circuito chiuso di incarichi, con dinamiche poco trasparenti.
La legittimità del sistema, oltre che dalla legge, dipende anche dalla percezione sociale della sua equità. Se il D.L. 48/2025 disegna un nuovo paradigma culturale, esso, però, necessita di visione sistemica, di un investimento concreto in competenze e risorse, e di una forte capacità di raccordo tra magistratura, ANBSC, autonomie locali, università e terzo settore. Solo così si potrà evitare che la legalità si trasformi in mera restituzione formale di beni svuotati di funzione, invece che in una vera riconquista di sovranità democratica sui territori. La sfida, oggi, prima che confiscare di più: è restituire meglio.
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