Bomba a Ranucci e incendio a 42 Parallelo: il legame col delitto Mattarella per me non è una coincidenza

  • Postato il 24 ottobre 2025
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Esiste un nesso tra la bomba fatta scoppiare davanti alla casa di Sigfrido Ranucci e il devastante incendio che ieri ha distrutto a Roma la sede della società “42 Parallelo”, quella che ha prodotto Magma, il docufilm sul delitto Mattarella?

Leonardo Sciascia era solito dire che le coincidenze non esistono.

Non si può non considerare che tra le “piste” ipotizzate dallo stesso Ranucci dopo la bomba ci sia proprio l’attenzione dedicata da Report alle indagini sull’omicidio Mattarella, riaperte dalla Procura di Palermo per un verso, ma ravvivate anche dall’ottimo lavoro di Giorgia Furlan, appunto Magma, per un altro. L’indagine giudiziaria (che oggi ha portato all’arresto di un ex prefetto per depistaggio, ndr) e quella giornalistica sull’omicidio Mattarella percorrono come è noto strade differenti, che però non sono di per sé incompatibili l’una con l’altra, stando anche alle convinzioni di Giovanni Falcone, il quale fece in tempo a lasciarle agli atti della Commissione parlamentare antimafia.

Al di là di chi premette il grilletto in quella tarda mattina palermitana del 6 gennaio 1980, è evidente che l’assassinio di Piersanti Mattarella abbia a che fare con il delitto Moro, con i segreti inconfessabili che lo spiegano, con il potere della Democrazia Cristiana a Roma e a Palermo, con la “strategia della tensione” (nell’anno che sarebbe stato l’anno dell’omicidio Bachelet, di Ustica e di Bologna), che ebbe nel terrorismo della destra eversiva e neofascista un protagonista con aderenze interne alle istituzioni non paragonabili a quelle che ebbero i terroristi “rossi”, aderenze soltanto in parte decifrabili da lì a qualche tempo con la scoperta, parziale, degli elenchi della P2 a Castiglion Fibocchi, nella villa del venerabile Licio Gelli (1981) e con il disvelamento di Gladio (Andreotti, 1990).

Una strategia volta a destabilizzare per stabilizzare, come dice Luciano Violante intervistato per Magma, nella quale attori stranieri e interni, istituzionali e non, avevano l’imbarazzo della scelta tra armi pronte a sparare e “spalle” sulle quali premerle. Poteri e modalità che – pur con obiettivi e protagonisti in parte differenti – ritroveremo dieci anni dopo, in quell’altrettanto terribile e decisivo frangente che è stato il periodo 1989-1994. Mi basta qui evocare la figura di Paolo Bellini per rimandare al fitto intreccio tra violenza politica, destra neofascista, pezzi di istituzioni infedeli alla Costituzione repubblicana.

Paolo Berizzi, autore de Il libro segreto di Casa Pound, prezioso nel ricostruire relazioni e ideologia attuale di una destra dichiaratamente fascista, figlia della diaspora di Fiuggi (ritrovatasi negli anni in buona compagnia con chi inizialmente a Fiuggi c’era pure stato, ma che da Gianfranco Fini si separerà senza rimpianti) ha sostenuto in alcune occasioni pubbliche che la destra fascista considera il 1945 soltanto come una temporanea sconfitta militare e non come la fine di un paradigma culturale e politico. Un paradigma che ha in odio la democrazia liberale e pluralista, fondata sul suffragio universale e quindi sulla uguale dignità di ogni essere umano.

La “chiave” proposta da Berizzi a me convince. È una chiave che spiega non soltanto il livore vendicativo di diversi campioni della destra oggi alla ribalta, ma che spiega più profondamente lo sforzo a reti unificate portato avanti da destri e sodali al fine di costruire una narrazione sulla storia recente italiana che cancelli dalla scena dei crimini tutti quei soggetti che hanno a che fare con l’eversione neofascista, i rapporti con la mafia e con certe logge massoniche.

A destra di certo non difetta la comprensione dell’importanza dello storytelling come viatico alla legittimazione del potere e dunque alla sua conservazione. Ciò che accade in Commissione antimafia con la onorevole Chiara Colosimo è un pezzo fondamentale di questo sforzo più generale, come lo è il coro levatosi dopo la sentenza di Cassazione di qualche giorno fa relativa a Marcello Dell’Utri (fu Berlusconi il grande liberatore della destra: lui la portò al governo del Paese).

La violenza politica ha da sempre una natura terroristica e quindi simbolica: è il messaggio che si scatena che conta. In questi anni, in un modo o nell’altro, il messaggio intimidatorio che sorregge un universo di condotte violente è che i ficcanaso non hanno futuro, che chi non si allinea allo storytelling mainstream può essere intercettato, pedinato illegalmente, può subire sequestri di materiali e strumenti, può vedersi le “fonti” riservate braccate e criminalizzate, può essere sepolto da decine di querele “bavaglio”, può assistere impotente alla precarizzazione della professione e al sorgere di nuovi poli editoriali tanto potenti quanto orientati.

Per tutto questo è necessario domandarsi se esista un nesso tra la bomba a Ranucci e l’incendio che ha devastato la sede di “42 Parallelo” in piazza Risorgimento a Roma. Dichiaro fin d’ora che sospetterò di “piste albanesi”, “cortocircuiti” o affini.

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Il Fatto Quotidiano

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