Carlo Michelstaedter ha dimostrato che la coerenza non è virtù, ma condanna

  • Postato il 1 novembre 2025
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Non aveva molto spazio tra pensare e vivere. Carlo Michelstaedter era un ragazzo di provincia con una lucidità spietata: guardava i suoi coetanei muoversi nell’inerzia delle convenzioni, accettare l’inganno del conforto, credere che il tempo possa guarire tutto. E si opponeva. Lui non cercava la verità: voleva solo non mentirsi. Lo faceva con la precisione di chi non vuole salvare nulla, ma solo capire dove finisce la menzogna. “Ognuno gira intorno al suo pernio, che non è suo, e il pane che non ha non può dare agli altri”, scriveva.

Michelstaedter è stato sempre presente a se stesso fino all’ultimo respiro: voleva il pieno, e quel pieno lo ha travolto. La sua non era fame di sapere, ma di sostanza: ogni sua parola era un atto di sottrazione, un tentativo di restituire all’esistenza il suo peso originario. Aveva poco meno di 24 anni e già vedeva la vita diventare retorica: per questo voleva disfare la trappola in cui era nato, il discorso.

La sua filosofia nasce da quella nausea, dall’impossibilità di accettare che il linguaggio serva a mascherare la paura, l’inquietudine. Aveva capito che ogni sapere è una forma di potere, che ogni spiegazione distrae dal nulla che siamo, che il linguaggio è un anestetico, un modo per non sentire il peso reale dell’esistenza; per creare una distanza confortevole tra noi e la vita dura, ammorbidendo la realtà. “Gli uomini lamentano questa loro solitudine; ma se essa è loro lamentevole è perché, essendo con se stessi, si sentono soli: si sentono con nessuno e mancano di tutto”. Questa è la sua sentenza più vera, la sua morale più segreta. Per lui ogni individuo è un essere radicalmente solo davanti alla verità del proprio intimo, e non esiste istituzione, ideologia, religione, affetto, che possa colmare, o gestire, quella solitudine senza illuderlo.

Un secolo prima, Giacomo Leopardi aveva chiamato questa stessa solitudine “noia cosmica”: l’uomo solo davanti a una natura indifferente. Ma mentre Leopardi grida contro il cielo, Michelstaedter grida contro se stesso. Entrambi rifiutano l’illusione: uno con la poesia, l’altro con il silenzio. La libertà, per Michelstaedter, non è una conquista, ma un rischio continuo: è la fedeltà a una coscienza che non delega, che non finge, che rifiuta i palliativi del linguaggio e delle abitudini.

Il suo suicidio non fu un gesto romantico, ma l’estrema coerenza del suo pensiero. Non rifiuto della vita, ma dell’illusione. Si tolse di mezzo quando capì che non poteva più dissimulare. La filosofia, per lui, era un corpo che non accetta anestesie. Ha compiuto la sua norma di vita come si compie un destino: ha tolto il superfluo fino a restare soltanto con l’essenziale. Ci ha lasciato un abisso. Ci ha insegnato che pensare significa distruggere tutto ciò che ci protegge dalla scoperta del senso. Non ci ha detto come continuare a vivere, ma perché continuiamo a farlo così: nell’abitudine, nel compromesso, nella paura di guardare.

Carlo Michelstaedter non è stato un filosofo compiuto: la sua ferita è rimasta aperta. In lui la morale non nasce dall’idea, ma dal dolore: dal corpo che non trova pace, dalla coscienza che non smette di interrogarsi. Ha dato alla filosofia la misura di un gesto umano: il coraggio di dire che non c’è salvezza nel parlare, che l’unica verità è non fingere più. La sua vita si è chiusa nel momento stesso in cui è diventata piena: aveva raggiunto la chiarezza ed essa, quando è assoluta, non perdona. Ha dimostrato che la coerenza non è virtù, è condanna. Che la coscienza, quando è totale, non lascia scampo. Da allora, qualsiasi pensiero ha smesso di essere innocente.

Bio: Carlo Michelstaedter nacque a Gorizia nel 1887 e morì suicida nel 1910, a 23 anni. Filosofo, poeta e pittore, scrisse un’unica opera compiuta, La persuasione e la rettorica, in cui oppose la verità interiore alla convenzione sociale. La sua voce, rimasta isolata nel tempo, continua a interrogare la coscienza moderna con la forza di un pensiero che non ammette compromessi.

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Il Fatto Quotidiano

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