Col Columbus day andrebbe ricordato anche il genocidio dei nativi d’America
- Postato il 13 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Leonardo Botta
Ieri è stato il “Columbus Day”, una giornata che senz’altro inorgoglisce gli italiani, compatrioti di quel Cristoforo Colombo che, cercando una rotta alternativa per le Indie, s’imbatté con gli equipaggi delle sue tre caravelle in un nuovo continente che madre natura aveva piazzato lì, in mezzo all’oceano, e che in onore di un altro esploratore, Vespucci, sarebbe stato poi battezzato “America”.
Ma sarebbe buona norma ricordare, insieme con quel cruciale evento per la storia mondiale, anche tutto ciò che riguardò, nei secoli successivi al 12 ottobre 1492 in cui un mozzo di vedetta gridò “Terra!”, quei luoghi fino ad allora inesplorati da est. Sto parlando di un fenomeno riassumibile con un termine di cui oggi si discute tanto a proposito delle sventurate popolazioni palestinesi: il genocidio. Un genocidio, o olocausto per chi preferisce, a danno di milioni di indiani, anzi, per meglio dire, “nativi americani”, provocato da colonizzatori provenienti dai “civili” luoghi dell’Inghilterra, della Spagna, del Portogallo.
Si contarono tra i 50 e i 100 milioni di indigeni spediti al creatore in onore del “sogno americano”. Il primo sterminio lo produssero le malattie portate dagli europei (si calcola che in appena mezzo secolo scomparve almeno l’80% dei nativi); il resto lo fecero secoli di “conquiste”, di ricerca dell’oro, del mito del Far West, spesso con il pretesto di convertire quei popoli “dimenticati da Dio” al cristianesimo.
Popoli dalle grandi tradizioni: Sioux, Apache, Comanche, Cheyenne, Seminole, Cherokee al nord, Maya, Aztechi e Incas al centro-sud. Popoli guidati da carismatici condottieri come Toro Seduto, Cavallo Pazzo, Geronimo, Pacal, Montezuma e Pachacuti.
Popoli degni, fieri, in armonia con la natura, che rispettavano i bisonti e le altre bestie da loro cacciate esclusivamente per il proprio sostentamento. E in alcuni casi grandi astronomi, letterati e architetti; come i Maya, le cui terre messicane ho avuto il piacere di visitare in luna di miele, capaci di progettare imponenti costruzioni nei territori dell’attuale Yucatan, con una perizia sconosciuta ai migliori progettisti e costruttori contemporanei: la piramide di Chichen Itza fu eretta e posizionata in modo che, nell’equinozio di primavera, con il gioco di luce e ombre apparisse su una delle scale esterne la sagoma del dio-serpente Kukulkan.
Per anni ci hanno insegnato a giocare con i soldatini che, al comando del generale Custer, combatterono “eroicamente”, pur sconfitti, sulle sponde del Little Bighorn contro quei “barbari, rozzi, primitivi, sanguinari” pellerossa. Poi qualcuno ha capito che la storia andava raccontata bene, e finalmente la letteratura e la storiografia, persino l’arte, la cinematografia e la musica ci hanno restituito verità per secoli sottaciute, purtroppo come accade spesso, dai vincitori. Ai molti libri pubblicati da scrittori scrupolosi si sono affiancati meravigliosi film come l’Oscar “Balla coi lupi”, e canzoni del calibro di “Run to the hills” degli Iron Maiden, “Fiume Sand Creek” e “Coda di lupo” di De André.
Per questo oggi, se avessi il piacere di incontrare Colombo da qualche parte, nell’aldilà, non gli chiederei cosa provasse ad affrontare l’ignoto e a scrutare l’orizzonte a bordo della Santa Maria. No, non gli chiederei questo, ma piuttosto: “Visto il casino che è successo dopo in quel continente, potessi tornare indietro rifaresti quella spedizione?”.
“E al Dio degli inglesi non credere mai” (De André, Coda di Lupo)
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