Confische antimafia, così la Cassazione cambia le regole a tutela delle vittime

  • Postato il 23 novembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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C’è un paradosso che in Italia facciamo finta di non vedere: lo Stato racconta la confisca antimafia come la grande vittoria della legalità, ma troppo spesso chi ha subito il reato resta fuori dalla porta. Prima vengono il sequestro, la misura di prevenzione, le conferenze stampa, i beni “liberati” consegnati a enti e istituzioni; solo dopo ci si accorge che le vittime sono rimaste senza risarcimento, perché il patrimonio è stato inghiottito dal circuito pubblico.

La sentenza delle Sezioni Unite dello scorso 14 novembre 2025, n. 37200, prova a mettere un freno a questa schizofrenia: in questa materia e art. 52 del Codice antimafia, la Cassazione dice che il credito della vittima non può essere cancellato solo perché la macchina della prevenzione corre più veloce della giustizia ordinaria. Non è un colpo alla confisca, né un regalo al garantismo di maniera: è il contrario, è il tentativo di renderla più solida e meno attaccabile.

Il caso è minuscolo nei numeri ma enorme nei principi: una vittima di furto, un credito di 4.000 euro, i beni del proposto sotto sequestro di prevenzione. Il tribunale esclude il credito dal passivo perché, pur essendo il fatto anteriore al sequestro, la decisione che accerta il danno arriva dopo la misura. Lettura rigidissima dell’art. 52: conta solo ciò che “risulta da atti aventi data certa anteriore al sequestro”. Le Sezioni Unite ribaltano la prospettiva: il credito della vittima deve nascere prima della misura (cioè dal fatto illecito già consumato), ma può essere accertato anche dopo, purché entro i termini per l’ammissione al passivo; in sede penale occorre una decisione definitiva, in sede civile basta una pronuncia provvisoriamente esecutiva.

Più rigido, invece, il regime per le spese giudiziali, che devono essere liquidate in una decisione precedente al sequestro. Tradotto: il diritto della vittima non nasce il giorno in cui il giudice trova posto in ruolo per firmare la sentenza, ma nel momento del reato. Se lo Stato pretende di aggredire i patrimoni senza aspettare la condanna definitiva, non può nello stesso tempo usare i ritardi del processo come arma contro chi è stato danneggiato.

L’art. 52 diventa davvero una clausola di compensazione del potere ablativo della prevenzione: la confisca resta, e deve restare, ma non può schiacciare in blocco i terzi incolpevoli. Proprio perché nessuno che conosca i territori mette in discussione la necessità di colpire i patrimoni mafiosi, è essenziale che le regole siano chiare: altrimenti si buttano argomenti in mano a chi sogna il ritorno all’intangibilità dei patrimoni criminali.

La sentenza parla anche a un altro equivoco: la prevenzione patrimoniale non è solo duello fra Stato e mafie, è anche il luogo dove si decide il destino delle vittime, dei creditori, dei lavoratori. Ed è qui che entra in gioco il riuso sociale. Da anni celebriamo il mantra “i beni dei boss tornano ai cittadini”: associazioni, cooperative, enti locali che subentrano in ville, aziende, terreni. È una narrazione importante, che va difesa, ma va resa coerente. Questo significa ridisegnare piani economici, ricalibrare destinazioni, assumersi la responsabilità di scelte che non si consumano sul palco di una conferenza stampa ma nelle stanze in cui si fa contabilità e si decidono, silenziosamente, chi viene pagato e chi no.

Non siamo alla rivoluzione, ma è un passo importante. È lavoro duro, poco fotogenico, ma è esattamente la frontiera dove si misura la serietà del sistema. Detto questo, sarebbe ingenuo leggere le Sezioni Unite come il lieto fine della storia. La sentenza disegna un bilanciamento sotto la pressione di un sistema giudiziario che resta lentissimo e diseguale. Perché la vittima possa entrare nel passivo, non basta che il suo credito sia sorto prima del sequestro: occorre che riesca a ottenere un provvedimento di condanna (o una sentenza civile provvisoriamente esecutiva) entro i termini per l’ammissione ordinaria o tardiva. In altre parole, la tutela funziona se la vittima ha la forza economica, culturale, organizzativa di mettere in moto un’azione civile o penale e portarla rapidamente a decisione. Chi è assistito da un buon avvocato, chi ha la capacità di muoversi in fretta, di monitorare i termini e presentare in tempo la domanda, entra. Chi è povero, disorientato, lasciato solo – e spesso sono proprio le vittime dei reati di matrice mafiosa – rischia di arrivare fuori tempo massimo, quando il bene è già stato stabilmente assorbito nel circuito della prevenzione e del riuso sociale.

Il filtro temporale, così come disegnato, è un filtro anche per censo processuale. Ma assumere questo dato non significa depotenziare le confische: significa chiedere allo Stato di mettere le vittime in condizione di giocare davvero la partita, con difesa tecnica, informazioni tempestive, accompagnamento nei labirinti del procedimento a partire, però, da un punto fermo che troppo spesso viene eluso: la confisca di prevenzione – e in generale la confisca “senza condanna” – non è una pena mascherata. È un istituto diverso, che si muove su un binario autonomo rispetto al giudizio di colpevolezza penale della persona, e che colpisce un’altra cosa: non la responsabilità per un fatto tipico, ma la pericolosità sociale espressa da un certo modo di accumulare e usare ricchezza.

È lo strumento che consente di aggredire i patrimoni che vivono stabilmente nella zona grigia tra illecito penale, elusione, intestazioni fittizie, reti societarie che rendono impossibile o inefficace la via della condanna. Se noi la confisca senza condanna la trasformiamo, anche solo nel linguaggio, in “pena patrimoniale”, facciamo esattamente il gioco di chi vuole riportarci all’epoca dei patrimoni intoccabili: basterà non arrivare mai a una condanna definitiva perché il sistema collassi. Dentro questo quadro, la sentenza numero 37200/2025 va collocata, dunque, al suo giusto posto.

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Il Fatto Quotidiano

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