Dalla strage di Capaci è cambiato tutto, tranne la retorica: una bella cerimonia e tutto torna come prima
- Postato il 23 maggio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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33 anni. 12.053 giorni. È il tempo che ci separa da quel sabato 23 maggio 1992. Da quel sabato pomeriggio in cui tutto è cambiato. Anzi, da cui nulla è cambiato. E non serve scomodare — di nuovo — la citazione più abusata della letteratura sulla Sicilia. Certo, è cambiata la moneta. Sono cambiati i nomi degli aeroporti, delle piazze, delle strade. È cambiata persino la tonalità delle sirene, che quel pomeriggio tagliavano l’aria insieme agli elicotteri. E che avrebbero fatto lo stesso appena due mesi dopo.
Sono cambiate le facce, i partiti, le sigle. Abbiamo visto scomparire la Prima Repubblica, nascere la Seconda, sprofondare nella Terza. O forse nella quarta. O magari perdere pure il conto. Sono cambiati i cellulari, le auto, i modi di parlare, forse anche la lingua che usiamo. Ma una cosa non è mai cambiata: la voglia di seppellire. In pompa magna e con tutti gli onori, sia chiaro.
Seppellire Giovanni Falcone. E con lui Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Seppellirli sotto corone d’alloro e bande musicali che suonano le note del silenzio. Come se non ve ne fosse stato già abbastanza. Seppellire con tutta la retorica dello Stato – e delle fasce tricolori e le alte uniformi – che onora i suoi servitori. Meglio quando sono morti.
Perché la memoria, se svuotata del conflitto, diventa cerimonia. E la cerimonia è rassicurante. Addomestica il dolore. Sterilizza la rabbia. La rabbia autentica di quelle giornate. La rabbia di una città che non voleva morire tra miseria, disoccupazione, emarginazione e pallottole e autobombe.
Così, ogni 23 maggio, si recita una liturgia salvifica. E chiariamolo, non recitano i ragazzi e le ragazze, la cosa forse più bella e viva, che scendono dalle navi e attraversano le vie di Palermo come stazioni di una via crucis. La liturgia è celebrata da uno stato che onora il sacrificio, piange il martirio, recita il copione. E poi tutto torna al suo posto.
Un sistema stato che non protesse in vita Falcone e Borsellino – e prima di loro Costa e Terranova e Giuliano e Cassarà e Basile e Montana e Chinnici e tanti, troppi, uomini colpevoli di fare bene il proprio lavoro – oggi si presenta con il vestito impeccabile alle commemorazioni. Ma lascia sepolte le domande. Quelle vere. Quelle scomode. Come se la morte di Falcone bastasse a mondare i peccati di ieri, di oggi, di domani.
Nel racconto ufficiale, la mafia è diventata un’ombra. Non fa più paura. Non uccide più. Non spara più. Non è più un problema. Sono rimasti solo “i residui”. I vecchi. I superstiti. Quelli che, arrestati, hanno facce contrite e avvizzite e non il ghigno spavaldo e sfidante delle immagini del blitz di San Michele negli anni 80. Ma questa è una bugia comoda. Una favola per bambini cresciuti.
La mafia non è finita. Si è solo adattata. Il suono di sirene e pistole è, oggi, sostituito da quello delle banconote o dei server che gestiscono le monete elettroniche e le criptovalute.
A Trapani, le inchieste scoperchiano ancora intrecci tra mafia, politica e affari. L’operazione “Scrigno” ha portato alla condanna dell’ex deputato Ruggirello. A Custonaci, Castellammare, Valderice, Alcamo emergono nuove mappe di potere. E nelle altre province non va certo meglio.
Sotto il tappeto non c’è la polvere: c’è il sistema. Negli ultimi cinque anni, 19 comuni siciliani sono stati sciolti per mafia. Altri lo saranno. E ancora oggi, si va dal boss a chiedere un favore. Un lavoro. Un prestito. Un locale da affittare. Il recupero di un credito o l’autorizzazione per aprire una rosticceria. Si chiede al capomafia ciò che non si chiede allo Stato. Intanto la Sicilia ha un tasso di abbandono scolastico doppio rispetto alla media europea.
A Catania, a Palermo, e c’è da giurarlo anche a Messina e ovunque, è più facile trovare una pistola che un contratto di lavoro. Gli stessi ragazzini che abbandonano la scuola si esibiscono in video virali con pistole e coltelli alle corse clandestine dei cavalli sulle tangenziali delle città. Le estorsioni aumentano. Le denunce calano. Le imprese rischiano: oltre 13.000 sono a rischio infiltrazione, ci dice la CGA di Mestre. I beni confiscati, in molti casi, sono ancora nelle mani delle cosche.
E allora, la domanda non è “Chi ha ucciso Falcone?” ma “Chi sta tradendo Falcone ogni giorno?”. Falcone ci aveva indicato una via: seguire i soldi. Perché dove ci sono soldi, c’è potere. E dove c’è potere, c’è la mafia. La mafia che non ha più bisogno del tritolo e ancor meno bisogno del sangue. La mafia che oggi indossa giacca, cravatta e parla di appalti, di energia, di logistica. Le bombe hanno fatto rumore. Ma oggi mi pare più forte il rumore del silenzio. Che uccide più lentamente.
Oggi non ci servono martiri per svegliarci, come ci svegliammo tra cortei furenti che chiedevano risposte e verità e lenzuoli intrisi di vernice e sangue appesi ai balconi. Ci serve, più semplicemente, il coraggio di vivere con dignità. Di denunciare. Di schierarsi. Di non dimenticare. Di non relegare la memoria alla commemorazione. Affinché dopo 12.053 giorni si smetta di onorare i morti solo da morti, e si cominci ancora di più ad onorarne la vita. La vita che scelsero e che vissero. E magari così onorare anche la nostra.
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