Dentro le reti di consulenza finanziaria: quanto del tuo denaro finisce davvero nel ‘gestito’?
- Postato il 22 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Nel mondo patinato delle reti di consulenza finanziaria, tutto sembra costruito per rassicurare: brochure eleganti, parole come “protezione”, “strategia”, “affiancamento”. Ma basta grattare appena la superficie per scoprire che esiste un termometro semplicissimo, accessibile a tutti, capace di misurare la reale natura di una banca o di una rete di consulenti: basta guardare quanta parte del patrimonio dei clienti finisce nel cosiddetto “risparmio gestito”.
Non serve essere analisti. Non serve leggere bilanci o decifrare prospetti da 200 pagine. È molto più semplice: se una rete ha la maggior parte del patrimonio investito in fondi, SICAV, gestioni patrimoniali o polizze, è quasi certo che la sua priorità non sia il risparmiatore, ma l’ingranaggio commerciale che deve alimentare. È il modello di business a raccontarlo, non la retorica delle interviste.
Le percentuali presenti nelle tabelle diffuse periodicamente dalla stampa specializzata parlano chiaro. In alcune reti il risparmio gestito supera abbondantemente la metà del patrimonio totale. E non è un dettaglio tecnico: è la fotografia di come funziona quel mondo. Il gestito è il motore che garantisce commissioni ricorrenti, entrate stabili e margini elevati. È la benzina che alimenta budget di vendita, campagne interne, sistemi premianti. Più fondi collocati, più provvigioni. Più provvigioni, più utili. E più utili, più pressione verso la raccolta.

Di solito la storia viene raccontata al contrario: il gestito come la soluzione più moderna, più sofisticata, più protettiva. E in alcuni casi può esserlo davvero. Ma il punto è un altro: è normale che ogni cliente, giovane o anziano, con profilo prudente o dinamico, con 20 mila euro o con due milioni, abbia bisogno delle stesse soluzioni gestite? Davvero ogni profilo richiede polizze costosissime o fondi che divorano rendimento in silenzio? È credibile che l’unica risposta a qualunque esigenza sia “un prodotto”?
Ho vissuto direttamente quel mondo per venticinque anni e da quindici lo osservo da consulente.
La verità è che quando la quota di patrimonio destinata al gestito supera certi livelli, non è più il cliente a orientare le scelte: è la struttura. E in queste situazioni la consulenza perde la sua natura, diventa collocamento a comando. Un nastro che gira sempre nello stesso verso. E infatti le tabelle che circolano nel settore, aggiornate ogni mese, mostrano chiaramente come alcune reti abbiano percentuali di patrimonio investite nel gestito che sfiorano o superano due terzi del totale. Una fotografia nitida: lì il prodotto non è una soluzione, è un destino.
Questo non significa demonizzare il gestito. Ci sono investitori che hanno bisogno di delegare, famiglie che richiedono protezione, patrimoni che necessitano di strumenti complessi. Ma una vera consulenza comincia prima del prodotto, non dopo. Comincia con un’analisi, non con un foglio firme.
Ma il vero nodo viene fuori guardando l’altra colonna, quella meno discussa ma ancora più rivelatrice: le fee della consulenza. Perché lì si misura non soltanto da dove arrivano i ricavi, ma come arrivano. In certi casi il gestito è il veicolo per caricare costi, in altri casi la consulenza stessa diventa un servizio a parcella. Ed è qui che si produce quella che, a un occhio distratto, sembra una contraddizione. Può persino accadere che una rete con il peso più basso di prodotti gestiti incassi però più fee, semplicemente perché non guadagna spingendo fondi o polizze, ma vendendo la consulenza stessa: non meno commerciale, dunque, ma commerciale in modo diverso.
Quando questo accade, il modello è più simile a una consulenza “a parcella”, dove il cliente paga per il servizio e non per il prodotto. È un approccio opposto al tradizionale “ti do un fondo e dentro il fondo c’è la provvigione”, e non è detto che sia sbagliato. Anzi, in alcuni casi è più trasparente. Ma proprio per questo diventa essenziale capire chi offre cosa, e soprattutto come viene remunerato.
È come se un ristorante ti facesse pagare il coperto, poi il servizio, poi l’aria condizionata, poi la musica di sottofondo. Tutto legittimo, per carità. Ma quando il conto arriva, scopri che gran parte del prezzo non riguardava il cibo, ma l’impalcatura che gli girava intorno.
E allora il consiglio, semplice ma decisivo, è questo: quando un consulente ti parla di pianificazione finanziaria, non guardare il catalogo dei fondi che tira fuori. Guardagli le mani. Chiedi con calma quanta parte del tuo patrimonio ha intenzione di mettere nel gestito e quale fee aggiuntiva ti verrà applicata. Perché se l’unica strada proposta è quella dei prodotti a forte caricamento, e accanto alla provvigione del prodotto compare anche la parcella del consulente, forse non sei davanti a un professionista “che pensa ai tuoi obiettivi”, ma davanti a un dipendente che deve centrare i suoi.
Un indicatore semplice, due colonne in una tabella. E improvvisamente si capisce tutto: chi fa davvero consulenza e chi, invece, si limita a vendere. In un’epoca in cui la finanza personale è diventata un labirinto, queste percentuali sono una torcia. Basta volerle accendere.
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