“Elevazione interrotta”, la mia denuncia in poesia per i tre operai caduti a Napoli

  • Postato il 28 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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di Yuleisy Cruz Lezcano*

“Elevazione interrotta”
(per i tre operai caduti a Napoli)

Nel ventre delle case, il cielo si frange,
un tremore d’acciaio tradisce le altezze.
Tre corpi si staccano dall’impalcatura
come frutti acerbi dal ramo del giorno.

Il montacarichi, carro dell’Icaro urbano,
li solleva a mezz’aria – non al sole,
ma a un grido muto di cemento.
E poi li lascia, come colombe buie, cadere.

Il tempo si incrina tra i piani dell’oblio,
ogni scala è una costola spezzata.
Il Vomero trattiene il respiro –
le sue finestre sono occhi senza palpebre.

Non un urlo, ma un silenzio vischioso
colora l’aria come pioggia di ruggine.
Nel vuoto della chiostrina, tre anime
si piegano come chiodi nel legno sacro.

Chi li chiamava per nome, ora tace;
la polvere ha memoria più lunga dell’uomo.
I caschi, come aureole disfatte, giacciono
tra i cocci di un lavoro che non promette ritorno.

Napoli trattiene il respiro con labbra rotte,
un mormorio salmastro tra le crepe dei vicoli.
Là dove cade un uomo, germoglia la colpa

e una rosa d’acciaio sboccia al settimo piano.

***

Scrivere questa poesia non è stato un atto estetico, ma una denuncia sociale. Quello che è successo a Napoli non è un incidente isolato: è una storia che si ripete, una morte che ha lo stesso volto in ogni regione, che si veste da operaio, da bracciante, da muratore, e cade nel vuoto, sempre nello stesso silenzio.

Ho scritto perché non posso tacere. Perché i morti sul lavoro non sono “fatti di cronaca”, sono ferite aperte nella dignità di un Paese. Ho scritto perché non voglio che quei tre nomi si perdano nell’aria come polvere da cantiere. La poesia, per me, è questo: non è decorazione del dolore, ma tentativo di condividerlo, di guardarlo in faccia e chiamarlo per nome. È uno sguardo che non fugge, un abbraccio che resta quando tutto si sgretola.

Mi sento vicina alle famiglie, alle mogli, ai figli che non dormiranno più nello stesso modo. Mi sento vicina perché so cosa vuol dire perdere senza motivo, sapere che tutto poteva essere evitato e non lo è stato per incuria, per fretta, per profitto. Scrivo, allora, non per salvarli, ma per non lasciarli cadere due volte: una nel vuoto, l’altra nell’oblio. E se i versi servono a qualcosa, che servano almeno a dire: non siete soli.

Non siete invisibili.

*Poetessa, scrittrice, attivista e professionista della salute, nata a Cuba vive a Marzabotto. Autrice di diciotto libri, alcuni pubblicati in edizione bilingue (italiano/spagnolo e spagnolo/portoghese), ha ottenuto riconoscimenti in numerosi premi letterari nazionali e internazionali.

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Il Fatto Quotidiano

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