“Ero con Alberto Trentini in carcere a Caracas. Pensava ai suoi genitori. Ecco come sono tornato a casa”
- Postato il 9 luglio 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Un uomo, un ex prigioniero del regime venezuelano. Nazionalità svizzera, è ritornato a casa dopo essere stato dietro le sbarre a Caracas. Lì è stato interrogato, incappucciato, legato a una sedia. Torturato. E ricorda di avere conosciuto proprio in una delle carceri più temute del Venezuela Alberto Trentini, il cooperante veneziano di cui da novembre 2024 non si hanno più notizie. “L’ho visto arrivare a Boleíta, nella direzione di Controspionaggio militare (Dgcim) dove io ero stato trasferito dopo un primo periodo a El Rodeo I. Due giorni dopo siamo stati trasferiti proprio lì, a El Rodeo, e ho potuto conoscerlo meglio – racconta nella sua testimonianza raccolta da Avvenire -. Mi è parso simpatico sin dal primo momento: è un grande fumatore. Essendo figlio unico il suo pensiero era rivolto ai genitori, che hanno una certa età. Non merita di stare lì. E spero possa uscirne presto”. La diplomazia italiana è al lavoro per riportare il 45enne a casa, ma finora permane una fitta coltre di silenzio sugli sviluppi del caso, sulla possibilità per Trentini di ricevere una visita diplomatica in carcere e sulle reali accuse che lo hanno portato a El Rodeo I. Ma l’ex detenuto svizzero rassicura sul suo stato di salute e raccomanda ai genitori di essere fiduciosi. “Direi loro di avere pazienza e di non perdere la speranza. Alberto sta bene, fisicamente è a posto. Nel mio caso, la vita è cambiata nel giro di pochi mesi. Sono sotto terapia e in casa risentiamo ancora degli strascichi psicologici e finanziari di quest’esperienza. Per i miei genitori è stato difficile: mio padre ha avuto due infarti per l’ansia di non sapere se fossi vivo o meno. Ora tocca ripartire, ma non è facile. A tenermi in piedi era quel filo invisibile che credo ci unisca ai nostri cari, anche se non riusciamo a sentirci né a vederci: è un legame utile per restare vivi, anche nei peggiori momenti”. Lui è tornato a casa intanto, e sta provando – con difficoltà – a fare ritorno alla normalità dopo il trauma della sua esperienza. La racconta nei dettagli, partendo dalla liberazione.
È stato prelevato dalla sua cella, incappucciato. Gli hanno puntato una pistola alla tempia e lo hanno ammanettato. Poi lo hanno caricato in macchina a testa bassa. Non scappare, gli hanno detto, sei a un passo dalla libertà. Quando è sceso, uno tra il presidente Nicolás Maduro, il ministro dell’Interno Diosdado Cabello o il ministro della Difesa Vladimir Padrino López (non è dato sapere chi dei tre) gli parla e lo porta personalmente alla residenza dell’ambasciatore svizzero a Caracas. “Ha capito che non ero stato trattato bene: mi ha detto che si era trattato di un errore. Ero pietrificato, non riuscivo neppure a parlargli. L’oggetto della trattativa è di carattere riservato. «Ci è costata cara», è l’unica che mi hanno detto le autorità del mio Paese senza specificare niente. È stato soltanto il mio governo a far qualcosa”, racconta. Non ha idea del perché sia stato detenuto: nella cella, dice, “tutti dicevamo di essere innocenti. Ma non ci fidavamo gli uni degli altri: questione di sopravvivenza. Poi siamo stati presentati a gruppi nel Tribunale e quando ci hanno parlato di “terrorismo” e “cospirazione” abbiamo capito di essere tutti innocenti. In fondo siamo pedine di scambio. E c’entrano le sanzioni contro Caracas e tutti i problemi politici del Venezuela“.
Dettaglia anche le condizioni del carcere, durissime, inumane. “Orribili”. Lì dentro si è “tagliati fuori dal mondo”, con la speranza indefinita di potere fare ritorno a casa. “La prigione poi è fatiscente: non c’è igiene e non ci sono abbastanza attività. Si può solo discutere con gli altri, andare a Messa, leggere testi religiosi e fare sport. Ci dicevano di pensare il carcere come una vacanza. Ma così non era: avevo 45 minuti d’aria tre volte a settimana. Insomma, non provo simpatia neppure per le guardie, sempre col volto coperto e una psiche scissa: capaci di ridere insieme a te e torturarti cinque minuti dopo”. Dimenticare quello che è successo lì è impossibile. “Più di una volta hanno cercato di estorcere confessioni false su un complotto terrorista anti-Maduro. Ero spesso legato a una sedia, con la testa coperta da un cappuccio. Sono stato anche obbligato a rilasciare un’intervista in cui dicevo ciò che loro volevano, mi hanno costretto a firmare un documento in cui ammettevo reati inesistenti. Altrimenti non sarei uscito. Chiesi più d’una volta di vedere il mio ambasciatore. «Non siamo in Europa», mi rispondevano. È un trauma. Ricorderò sempre ciò che mi è stato fatto lì”.
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